Arte, libertà e propaganda corrono sul muro di Gaza

Arte, libertà e propaganda corrono sul muro di Gaza

Gaza – Per Jamal la libertà ha la forma di un grappolo di palloncini rossi, che lui ogni giorno afferra e, librandosi in volo, con la forza della fantasia, supera sei metri di cemento armato. Per Walid, invece, la libertà ha il colore azzurro e luccicante del mare caraibico, in un atollo lontano. Per Salim, quella parola equivale a una sola immagine: un purosangue arabo che galoppa veloce e indomito sulla spiaggia, con la criniera al vento.

Ogni giorno qualcuno apre uno squarcio nel muro della West Bank Barrier. E non lo fa con picconi, armi o esplosivo. Ma con i colori. Centinaia di graffiti, opera di writer provenienti da ogni parte del mondo, raffigurano mille modi diversi per scavalcare l’enorme barriera eretta dal governo israeliano nel 1994 che, srotolandosi lungo 730 chilometri, separa i territori israeliani da quelli della Cisgiordania.

E’ stato l’imprendibile Bansky, l’artista inglese senza volto, che non ama essere intervistato né fotografato ma che con la sua mano ha firmato i muri delle città più “calde” del pianeta – tanto da essere ribattezzato “il terrorista dell’arte” – uno dei primi a consacrare la street art lungo la Barriera. La sua ultima incursione ufficiale risale al 2008, ma c’è chi giura di averlo visto anche pochi mesi fa. Rigorosamente di notte, rigorosamente “armato” di uno zaino pieno di bombolette spray e stencil. Oggi, nove dei suoi disegni – che qualcuno ha già proposto di esporre alla Tate Gallery di Londra – il più grande dei quali misura sei metri quadrati, campeggiano sui muri da Gerusalemme, Betlemme e Ramallah.

Ma la “street art” nei territori palestinesi esiste da sempre. Non si tratta di cultura metropolitana, ma di tradizione calligrafica. Perché era sui muri che – prima di Internet e dell’avvento dei social network – venivano lasciati messaggi politici, slogan e appuntamenti per scioperi della fame. O anche solo annunci di eventi comunitari e familiari: un matrimonio, la morte, l’Haij, il pellegrinaggio. Poi le effigi dei Raìs, i ritratti degli shaheed, i “martiri”, come vengono chiamati quelli che sono stati uccisi o che sono morti per la causa palestinese.

E se fino ad alcuni anni fa i soldati israeliani provvedevano a far rimuovere scritte e graffiti, con il benestare delle autorità palestinesi che si occupavano in termini pratici della cancellazione, oggi Hamas (a certe condizioni) li incoraggia. E promuove corsi di disegno. Con tanto di lezioni improvvisate tenute dai writer che si danno appuntamento ogni anno nella zona più turbolenta del pianeta. Soprattutto per tenere occupati i ragazzi palestinesi. Che, armati di bombolette spray, evadono anche solo virtualmente dal grigiore della barriera di cemento e dalle macerie della città.

E allora ecco che l’enorme muraglia si colora con ritratti e slogan, che rimandano al mondo del cinema e dell’arte. Ma soprattutto, i disegni sono provocazioni politiche per la West Bank Barrier. Come il graffito che ritrae una bambina che si libra nell’aria aggrappandosi ad alcuni palloncini, e passa dall’altra parte del muro. O come le scalette nere che dalla base del muro raggiungono la cima e che, tante sagome, una in fila all’altra, percorrono e scavalcano. Ci sono punti, poi, dove il muro sembra essere spaccato. E dall’altra parte si intravedono un mare limpido e atolli tropicali. Ma è solo vernice azzurra, dipinta con maestria attraverso la tecnica del trompe d’oeil.

Il simbolo delle forbici che tratteggiano un quadrato da tagliare, e la colomba della pace vestita con il giubbotto antiproiettile, sono invece i messaggi più provocatori diretti al governo israeliano. Il graffito, infatti, è anche inteso come propaganda. E come il colore della kefiah, anche il colore dello spray identifica l’appartenenza politica: il verde per Hamas, il rosso per i partiti di sinistra, il nero per Fatah.

Un fenomeno che non è mai scomparso, a Gaza e soprattutto in West Bank. Durante la Prima Intifada i graffitari dovevano fare in fretta, rischiando di essere arrestati (i messaggi sui muri erano parte della resistenza contro l’occupazione israeliana) e di conseguenza puniti. I soldati israeliani ordinavano all’intero quartiere di ripulire i muri, se trovavano un murales. Poi graffiti sono riemersi con nuove tecniche e nuove forme, nel 2000 con lo scoppio della Seconda Intifada. Nel luglio del 2003 è stata l’Autorità nazionale palestinese a rimuovere parte di questo universo colorato. In seguito ad un accordo tra Israele e il presidente dell’Anp Abu Mazen, sono stati cancellati alcuni dei murales e degli esercizi calligrafici dai muri di Omar bin al-Mukthar street, una delle principali arterie di Gaza City. Ma la rimozione è durata poco. E le strade di Gaza hanno ripreso a essere le pagine su cui è scritta la storia quotidiana di questo fazzoletto di terra. Oggi come ieri messaggi di ogni genere ricoprono i muri, i pali della luce. E ancora oggi il graffito è un mezzo per mobilitare la popolazione palestinese, per riaffermare la propria identità politica, per dare un messaggio alla comunità.

E se – appunto – ovunque nel mondo le autorità puniscono con pesanti sanzioni pecuniarie contro i graffitari, considerati alla stregua di vandali, a Gaza il governo “de facto” di Hamas, non solo li tollera, ma li incoraggia – specie se legati al movimento – organizzando corsi di calligrafia. E a essere attratti dai colori – come è logico che sia – sono soprattutto i bambini e i ragazzi di Gaza. I writer europei, per loro, sono maestri. Si lasciano affascinare dalle sfumature dei colori, dall’odore della vernice, dalle tecniche di “pittura”. James Richards, americano, è arrivato direttamente da Chicago per lasciare la sua “tag”. E ora insegna la sua arte ai bambini palestinesi: «Ho disegnato un lago di montagna, sul Muro di Gaza. Perché molti di questi bambini non usciranno mai da questi confini, e non ne vedranno mai uno vero. La fantasia è la loro unica arma. I colori, invece, sono la nostra».

Foto dalla West Bank Barrier

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