“Basta africani”: a Tel Aviv parte la caccia agli immigrati

“Basta africani”: a Tel Aviv parte la caccia agli immigrati

TEL AVIV- Natasha lo racconta a tutti quelli che passano dal suo negozio, una rosticceria di prodotti russi e kasher, in Har Zion Boulevard, il quartiere dove si trova la più alta concentrazioni di israeliani di origini baltiche: “Ero con mia figlia, una bambina di 13 anni. Un gruppo di africani ci ha gridato frasi oscene, e poi ci ha inseguito fino a casa”. Le fa eco una donna alta e dai capelli rossi, anche lei di origini russe: “Da alcuni mesi la situazione è intollerabile. Rubano, violentano, picchiano. E molti di loro sono malati di Aids”. Alcuni sono episodi reali, che riecheggiano sulle pagine di cronaca dei quotidiani locali. Altre volte, invece, si tratta di pura suggestione. O di psicosi collettiva. Fatto sta che da alcune settimane a Tel Aviv si è scatenata la caccia all’immigrato. Con tanto di manifestazioni, fiaccolate, raid notturni di bande giovanili che devastano i negozi gestiti dagli immigrati. E decine di arresti da parte della polizia. 

Negli ultimi mesi, infatti, in città si è assistito all’arrivo di un’ondata migratoria proveniente dall’Africa, soprattutto dal Sudan e dell’Eritrea. Giovani richiedenti asilo politico. In tutta Israele, quasi tremila persone. La maggior parte concentrati – appunto – a Tel Aviv, centro economico del Paese. Alcuni di loro, che sono qui già da tempo, hanno trovato impiego negli hotel della città. Altri, invece, trascorrono le loro giornate nei giardini che costeggiano la Central Bus Station, la più grande stazione di autobus della città.

Il “casus belli” è stato lo stupro di una donna di 35 anni, tre settimane fa, aggredita da un immigrato di origini sudanesi mentre rientrava a casa la sera, nella zona Est di Tel Aviv. Pochi giorni dopo questo episodio, ne sono seguiti altri simili. Le reazioni non si sono fatte attendere. Tanto che c’è persino chi chiede “la deportazione degli immigrati africani da Israele”. Manifestazioni di intolleranza nei confronti dei migranti hanno attraversato la “capitale laica” dello Stato fino a raggiungere la cittadina marittima di Haifa.  Nel quartiere meridionale di Hatikva la scorsa settimana hanno manifestato più di mille persone. I manifestanti, senza fare distinzione fra migranti a falascià, ovvero ebrei di origine etiope, hanno lanciato sacchi di immondizia su ogni persona dalla pelle scura che vedevano camminare per strada e dato fuoco a macchine e cassonetti. Ce l’avevano con gli immigrati, fra i quali, secondo loro “si nasconderebbero anche infiltrati terroristi” e con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, esponente del partito di destra Likud e colpevole, secondo i manifestanti, di una politica troppo “tenera” nei confronti dei migranti. Mentre slogan di sostegno sono arrivati nei confronti del ministro degli Interni Eli Yishai, che la scorsa settimana ha invocato la detenzione e l’espulsione per i richiedenti asilo. “La sinistra è il cancro – urlava la folla – quelli di sinistra sono peggio degli arabi!”.

Il bilancio finale è stato di 17 persone arrestate, e le proteste non si sono placate. Solo tre giorni fa, infatti, i manifestanti sono tornati a far sentire la loro voce davanti alla Central Bus Station. A pochi passi dal quartiere con più alta concentrazione di immigrati africani. Qui vive anche – appunto – una folta comunità di falascià, popolo di origini etiopi ma di religione ebraica, che nei primi anni Novanta – fuggiti dall’Etiopia logorata dalle carestie – furono accolti in massa dallo Stato di Israele. Proprio uno di loro, Hananya Vanda, scambiato per un profugo, è stato preso a bastonate. “E’ paradossale che proprio io, che sono stato aggredito, mi ritrovi a dover difendere i manifestanti – ha spiegato Vanda – ma è un dato di fatto che la presenza di profughi ha un che di minaccioso, e intimidisce. Tel Aviv sembra sotto assedio”.
“Noi non siamo razzisti – si sfoga Rahel Cohen, 68 anni, mentre sventola con orgoglio la bandiera di Israele – non vogliamo che si pensi questo. Ma la situazione è diventata disperata. Li facciamo arrivare e poi non hanno assistenza, diventano pericolosi, molti di loro hanno malattie. E noi abbiamo paura per le nostre figlie e nipoti”.
Spiega uno dei leader della rivolta contro i migranti, Baruch Marzel: “Da ora in avanti organizzeremo proteste quotidiane per far sentire la nostra voce. Non staremo calmi fino a quando il primo ministro e quello degli Esteri non cominceranno a reagire, invece di parlare”.

E chi è già drammaticamente passato dalle parole ai fatti, sono state le bande giovanili che da alcune notti stanno devastando le attività commerciali gestite da immigrati. Barbieri, ristoranti, negozi etnici. Gli interventi da parte della polizia sono quasi quotidiani. “Si sentono autorizzati da questo clima di caccia all’immigrato – spiega un agente – e allora danno sfogo alla violenza, anche se a sproposito. Perché colpiscono le persone che nulla hanno a che vedere con gli autori di presunti casi di molestie nei confronti di donne che si sono verificati nelle ultime settimane qui a Tel Aviv. Nulla, se non il colore della pelle”.  

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