Sabrina Blotti. Si chiamava così l’ultima vittima della furia distruttiva di un uomo che non voleva accettare la fine di una relazione e che non si rassegnava all’idea che lei potesse emanciparsi per sempre dal loro rapporto. Un violento e irrefrenabile istinto possessivo, un desiderio malsano di esercitare il controllo assoluto sulla vita della donna, hanno guidato la mano dell’assassino. Ma, come troppe volte accaduto in occasione dei fatti di sangue che hanno colpito le donne italiane e le immigrate che lavorano nel nostro paese, l’omicidio rappresenta il punto terminale di una lunga escalation di minacce e intimidazioni. Lungi dall’essere il gesto isolato di uno squilibrato e l’espressione di un raptus improvviso, l’uccisione di Sabrina – come spessissimo accade – era stata preceduta e preannunciata dal comportamento persecutorio del suo ex amante, che per questo motivo era stato denunciato alle forze dell’ordine. Iniziativa che tuttavia non ha fermato il proposito omicida dell’uomo.
La tragica vicenda avvenuta a Cervia il 31 maggio è solo l’ultimo capitolo di una lunga serie di violenze e sopraffazioni perpetrate contro le donne da parte di mariti, compagni, fidanzati e uomini che dichiaravano di amarle. Le cifre fornite dagli osservatori e dai centri di ricerca impegnati su questo fronte disegnano un quadro allarmante. Dall’inizio del 2012, in Italia sono state uccise 63 donne. Nel 2011 le donne assassinate sono state 128, 10 in più rispetto al 2010. Il trend degli omicidi appare in continua ascesa, ma aumenta anche il numero delle denunce e delle richieste di provvedimenti restrittivi e di custodia cautelare. È qui il cuore del problema, il nodo da chiarire e sciogliere al più presto. Sembra che non esistano strumenti efficaci di difesa per le donne, meccanismi deterrenti di prevenzione, repressione, e neutralizzazione dei persecutori. L’impressione sempre più diffusa è che anche in presenza di denunce dettagliate e tempestive, le cittadine più coraggiose continuino a restare vulnerabili di fronte ai loro persecutori. Mentre resta radicata la ritrosia a denunciare il proprio stalker per la paura di restare sole e impotenti.
La piaga delle persecuzioni contro le donne da parte di chi si ostina a ritenerle l’oggetto di un possesso e non tollera la manifestazione della loro libertà individuale, in tutte le sue forme, non accenna a diminuire. Forse è anche per questo motivo che Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, alla vigilia dell’otto marzo ha evidenziato come in Italia ormai si debba parlare di “femminicidio”.
La legge contro lo stalking, promossa dall’ex ministro per la Parità fra uomini e donne Mara Carfagna e approvata con un voto bipartisan del Parlamento nell’aprile del 2009, era stata salutata dalla politica e dagli organi di informazione come una svolta epocale di civiltà, come un passaggio cruciale nella protezione della libertà e della dignità della donna. Le sue promesse solenni e le aspettative che ne avevano accompagnato il percorso legislativo sono state disattese? È necessario intervenire sulla normativa di riferimento, sulla sua attuazione amministrativa, sul comportamento e gli orientamenti di magistrati, sull’operato delle forze dell’ordine, sulle misure di repressione e prevenzione?
Rosa Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, organizzazione da anni in prima linea nell’impegno contro le violenze nei confronti dell’universo femminile, focalizza l’attenzione su “un anello mancante” nella disciplina in vigore, su “un ingranaggio che non funziona e non permette di applicare una legge ben congegnata. Una legge che ha avuto il merito di avere favorito l’emergere di un flagello sociale che prima quasi nessuno osava portare alla luce”. A suo giudizio, l’ostacolo fondamentale verso una autentica protezione delle donne dai fenomeni persecutori e intimidatori è rappresentato dai tempi lunghi della giustizia. “Le 900 telefonate di aiuto che ogni anno arrivano dalle nostre connazionali e le 300 testimonianze provenienti dalle cittadine straniere presenti in Italia – spiega Moscatelli – sono il passo iniziale e imprescindibile per mettere in moto un procedimento complesso che prevede l’intervento dei nostri avvocati per presentare l’esposto-denuncia alla magistratura”.
Ma tutto ciò non basta. Polizia e Carabinieri, prosegue la presidente di Telefono Rosa, sono solerti e scrupolosi nel ricevere, valutare e dare seguito alle querele per stalking, grazie a un elevato grado di consapevolezza e di attenzione. Appena la documentazione giunge sul tavolo dei magistrati l’intero percorso rallenta vistosamente, e l’attesa per lo svolgimento e l’esito dei tre gradi di giudizio diviene logorante: “Sono necessari in media cinque anni per concludere un processo su una violenza sessuale. Figuriamoci cosa accade per un’imputazione di stalking”.
È proprio in quell’arco di tempo che si annidano i pericoli e le insidie più grandi per le donne, il rischio di rimanere prive di protezione e di restare sole e impotenti verso ritorsioni e violenze dei persecutori. Ecco il fronte su cui intervenire, “accelerando tutti i procedimenti giudiziari per stalking e agevolando la possibilità per la donna di richiedere alle forze di polizia l’adozione tempestiva dell’ordine di protezione. Provvedimento grazie a cui il sospetto persecutore è obbligato, pena l’arresto, a restare lontano dai luoghi frequentati dalla vittima”. Solo così, osserva la responsabile di Telefono Rosa, potremo aiutare le cittadine italiane e straniere che oggi non trovano la forza di denunciare a viso aperto il loro molestatore, per paura di vendette feroci e per ritrosia a intraprendere un lungo e insidioso cammino nei tribunali. Per incoraggiare le donne a mettere lo stalker di fronte alle proprie responsabilità determinando in lui una sorta di “shock salutare”, è più che mai essenziale il ruolo delle organizzazioni a difesa dell’universo femminile. Organizzazioni che devono far sentire la loro vicinanza e presenza. Ma per svolgere tale compito, puntualizza Moscatelli, “il governo deve rinunciare ai tagli drastici dei fondi stanziati per il piano nazionale e per i centri contro la violenza. Le riduzioni annunciate dal responsabile del Welfare Elsa Fornero sarebbero inaccettabili in un paese nel quale ogni quattro giorni viene uccisa una donna”.
A individuare nella legge in vigore, e nella concezione della giustizia che ne costituisce il substrato ideale, la ragione profonda della mancanza di forme efficaci di difesa per le vittime degli atti persecutori è il fondatore e presidente dell’Osservatorio nazionale sullo stalking, Massimo Lattanzi. A giudizio del quale “il peccato originale della normativa approvata tre anni fa risiede nella visione puramente punitiva che l’ha ispirata, come rivela il suo inserimento nel pacchetto sicurezza concepito dal governo Berlusconi sull’onda dell’emergenza provocata da fatti sanguinosi. Con il risultato inevitabile di comprendere nella violenza di genere, sessuale e domestica, contro le donne, il fenomeno peculiare dello stalking”. Fenomeno che, rimarca Lattanzi, trova le sue radici in una violenza innanzitutto psicologica, “deleteria e distruttiva come le sopraffazioni fisiche”, e si sviluppa nell’80 per cento dei casi all’interno di rapporti familiari e di coppia. Una realtà che quindi “impone di integrare i provvedimenti cautelari e preventivi con interventi di giustizia riparativa, in grado di agire sulla figura del persecutore nella prospettiva di un suo recupero e reinserimento sociale, estirpando alla radice il problema e le sue motivazioni”.
Il problema dello stalking, in altre parole, “rende necessario un trattamento analogo alle terapie utilizzate per curare i giocatori d’azzardo e le persone dipendenti da droghe o da alcool, considerando che il 40 per cento degli autori di gesti persecutori sono recidivi. Se pertanto le misure adottate nei loro confronti si esaurissero in una serie di provvedimenti restrittivi, essi finiranno per rafforzare il muro che li separa dalle vittime, e saranno portati a perpetrare altre violenze verso chi li ha denunciati”. La strada da intraprendere, osserva Lattanzi, implica un rapporto diretto con lo stalker, ove sia possibile anche coinvolgendolo in un confronto con la persona che ha subito le sue manifestazioni ossessive, allo scopo di fargli capire le ragioni profonde della fine della relazione.
Puntare sull’assunzione di responsabilità personale deve essere dunque l’obiettivo di una strategia efficace su un problema così allarmante. Iniziativa che “richiede una chiara distinzione tra le problematiche legate alla violenza di genere e gli atti persecutori”, e un adeguamento delle competenze dei centri contro la violenza, “che a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti e in Australia non appaiono ancora sufficientemente attrezzati”. Ad aggravare le difficoltà derivanti dal ritardo normativo sono poi i tempi intollerabili della giustizia, le carenze di organico nelle forze di polizia, le regole sul patrocinio gratuito che riguardano solo le persone prive di reddito. Tutte le altre devono assumere su di sé il peso di notevoli spese legali se vogliono costituirsi parte civile. Fattori che contribuiscono a delineare un quadro altamente problematico.
“Se è vero che la legge del 2009 ha consentito l’emergere del fenomeno stalking, dalla sua introduzione la propensione a denunciare gli atti di persecuzione ha registrato un calo progressivo, è cresciuta la percezione di insicurezza e vulnerabilità a seguito della presentazione degli esposti all’autorità giudiziaria, ed è aumentato il tasso degli omicidi, soprattutto nel Centro-Nord”. Un panorama che peraltro sarà completo ed esauriente solo quando verranno inclusi i dati sul coinvolgimento delle cittadine immigrate. Le vittime straniere degli atti persecutori in Italia sono il 10 per cento del totale, ma la cifra reale è assai più elevata, visto che molte di loro rinunciano a rivolgersi alle istituzioni a causa della propria condizione di irregolarità o clandestinità.