È noto che la crisi del debito sovrano potrebbe affondare l’Unione europea e provocare gravi danni all’Italia, e che per risolverla – come hanno sostenuto da ultimo Alesina e Giavazzi sul Corriere – occorre creare una forma di unione politica, quantomeno tra gli Stati della zona euro.
Le principali opzioni – unione fiscale, bancaria ed economica – sono altrettanto note, e mirano sia a rafforzare la solvibilità degli Stati colpiti dalla crisi e delle loro banche sia a creare gli incentivi necessari a far crescere la produttività delle loro economie: si tratta, in altre parole, di restituire slancio alla «macchina europea della convergenza», come l’ha recentemente definita la Banca mondiale, che ha prodotto risultati straordinari nei decenni passati. La cessione di sovranità alle istituzioni europee che ciò richiede segnerebbe un passo irreversibile verso l’unione politica, la quale verrebbe così progressivamente ad affiancarsi all’unione monetaria, eliminando l’asimmetria originaria.
La crisi infuria perché i governi europei non si sono ancora impegnati a compiere questo passo. Le misure adottate sinora – le iniezioni di liquidità della Bce e i fondi salva-Stato, ma anche le nostre manovre fiscali – hanno infatti pienamente senso solo nella prospettiva dell’unione politica, senza la quale restano dei palliativi temporanei: questa è una crisi di fiducia, e può essere risolta solo con risposte politiche comuni e orientate sul lungo termine.
Concordare l’unione politica sarà complicato ma è possibile, perché la gravità della crisi è tale da superare l’incentivo delle élites nazionali a non cedere i propri poteri sovrani. Ed è una soluzione praticabile, perché per ristabilire la fiducia dei mercati è sufficiente che i governi europei concordino il progetto nelle sue linee essenziali – ossia i poteri da trasferire alle istituzioni comuni e la loro legittimazione democratica – e assumano un impegno credibile a realizzarlo. Ma è altrettanto chiaro che un progetto di tale portata non deve e non può essere deciso dai soli governi: occorre che essi lo espongano ai loro elettorati e parlamenti e ne guadagnino il consenso, senza il quale quel progetto non sarebbe neppure credibile.
Il governo italiano è favorevole all’unione politica e sembra aver acquisito un ruolo importante nel negoziato europeo, nello spazio apertosi tra le posizioni francese e tedesca. Ma presto dalle misure temporanee contro la crisi si passerà a discutere della revisione del contratto sociale europeo, e su questo tema il nostro governo manca però di credibilità nei confronti degli altri governi. Non tanto perché abbia poco tempo o perché le sue politiche economiche non abbiano un solido sostegno parlamentare e popolare, quanto perché il parlamento non gli ha conferito un mandato a negoziare il futuro dell’Unione europea né esiste una posizione italiana su questo tema, a parte un generico europeismo. Anzi, nel silenzio del governo e dei principali partiti campeggiano isolate le dichiarazioni euroscettiche – o antitedesche, che ai loro occhi è più o meno la stessa cosa – di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi.
Ma se il governo che rappresenta la terza economia e il maggior debito pubblico dell’area euro è incapace di impegnare il proprio Paese nel negoziato sull’unione politica, è evidente che questo negoziato non potrà compiere seri e convincenti progressi perché le scelte più importanti dovranno essere rimandate a quando un nuovo governo sarà in carica, dopo le prossime elezioni.
In questa situazione e il rischio che la crisi precipiti si aggrava pericolosamente. In mercati così instabili, permane in particolare la possibilità di una fuga di capitali dalle economie che sono nell’occhio del ciclone: se essa colpisse l’Italia, l’esito potrebbe rapidamente rivelarsi catastrofico.
È quindi dovere del governo e delle forze politiche più responsabili aprire il dibattito sull’integrazione europea e lavorare affinché emerga una posizione condivisa dai principali partiti. Mentre non è possibile né auspicabile che essi si accordino sulla mera prosecuzione delle politiche economiche di questo governo, è certo possibile pretendere che si accordino sulla questione – doppiamente esistenziale – dell’integrazione europea, e su questa base formulino un mandato negoziale che sia valido sia per questo governo sia per il prossimo, quale che sia la maggioranza politica che lo sosterrà. Ciò consentirebbe al governo di far proseguire, e anzi di dare impulso al negoziato da cui probabilmente dipende il futuro del continente.
Porre l’integrazione europea al centro del dibattito politico è ancora più urgente se avremo elezioni in autunno, anche al fine di evitare che la campagna elettorale si avviti sulla falsa alternativa tra rigore e crescita e apra così uno spazio pericoloso alle opzioni populiste che questo periodo di sospensione dalla normale dialettica politica ha suscitato o rafforzato: oltre che falsa, quell’alternativa è fuorviante perché al punto in cui siamo non è con politiche nazionali, di rigore o di crescita, che si esce dalla crisi, ma solo rafforzando l’Unione europea. È di questo che si deve parlare, ed è in questo quadro che la discussione sulla politica economica e fiscale può avere pienamente senso: penso ad esempio ai rapporti tra i vincoli posti dall’unione fiscale e la protezione e l’evoluzione dello stato sociale.
Il dibattito per l’unione politica può essere vinto perché è sostenuto da ragioni forti, e non solo dalla gravità della crisi: le nostre libertà politiche e il fondamento delle nostre conquiste sociali non risiedono più solamente negli Stati nazionali, ma richiedono una garanzia più elevata, e in prospettiva un’unione federale.
L’onere di aprire questo dibattito spetta al Partito democratico, la prima forza del Paese e la più responsabile tra le grandi: dica se vuole l’unione politica e dica come la vuole. Ovvero, se non crede in questa soluzione, dica come altrimenti si esce dalla crisi. E poi sfidi gli altri partiti a rispondere alle medesime domande di fronte all’elettorato.
*Andrea Lorenzo Capussela è il consigliere del ministro dell’Economia e vice primo ministro di Moldavia, per conto dell’Unione europea.