aggiornamento 1 agosto 2012 ore 23.05
L’interrogatorio di Alberto Nagel è durato sei ore. L’Ad di Mediobanca, che secondo alcune fonti in questi giorni precedenti all’interrogatorio sarebbe stato all’estero, ha detto di una nota che «conferma di non aver stipulato alcun accordo o patto con la famiglia Ligresti inerente l’integrazione Unipol-Premafin». E che qualcosa l’ha sì firmato, ma solo per avvenuta conoscenza, era solo una fotocopia e non significa quel patto di cui lo si accusa. Il 17 maggio infatti «su richiesta di Jonella Ligresti, Alberto Nagel ha siglato, esclusivamente per presa di conoscenza, la fotocopia di un foglio di carta dalla stessa manoscritto che riportava un elenco di desiderata della famiglia Ligresti». Richieste che, dice, erano «in parte note e non destinate a Mediobanca, che non è parte di alcun accordo con la famiglia in questione, né quindi impegnative per l’istituto». Un elenco che «non si è mai tradotto in alcuna ipotesi di accordo con Mediobanca, Unicredit o Unipol». Nagel sigla quindi una fotocopia di richieste «in parte note» ma «non destinate a Mediobanca». Nella prima nota di Mediobanca, quella emessa il 25 luglio quando il Corriere ha pubblicato la notizia del presunto patto, si leggeva che «non c’è stato alcun accordo con i Ligresti, né sono stati firmati documenti». Oggi invece si legge che Alberto Nagel «ha siglato» una fotocopia. Lemme lemme qualcosa si muove.
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A leggere in questi giorni dello scandalo Libor veniva quasi da rivalutare i banchieri di casa nostra. Quello che emerge, e quello che sembra che emergerà, una tangentopoli inglese di altissimo livello, poneva in tentazione di rivalutare i nostri uomini del denaro. Poi però è arrivata Mediobanca. Per chi si è occupato delle cronache Parmalat o di quelle Cirio, la merchant bank milanese era la grande istituzione finanziaria che era rimasta fuori dalle ultime pagine più nere del capitalismo di casa nostra. Un’eredità presa in consegna da Alberto Nagel, eletto amministratore delegato in quella che era stata descritta come la svolta della presa del potere della generazione dei quarantenni cresciuti all’ombra di Enrico Cuccia, che avrebbero dovuto rappresentare la continuità, almeno morale, con l’autorevolezza del fondatore e di quel mondo di banchieri come Raffaele Mattioli che, visti dall’oggi, sembrano appartenere alla notte dei tempi e non a soli pochi decenni fa.
La cronaca che leggiamo oggi nell’articolo sul Corriere della Sera di Luigi Ferrarrella, giustamente considerato la Cassazione del giornalismo giudiziario italiano, è l’apice meno auspicabile di una vicenda come quella del salvataggio del gruppo Fonsai che già di per sé non brillava per trasparenza e rispetto del mercato, e sul quale il nostro Lorenzo Dilena ha fatto in questi mesi un grande lavoro di scavo e approfondimento. Non ci interessa qui ricostruire la vicenda ben descitta da Ferrarella e registriamo la presa di posizione della banca d’affari milanese che dice che «non c’è stato alcun accordo con i Ligresti, né sono stati firmati documenti».
Tuttavia, se davvero quanto è successo è che Alberto Nagel ha stipulato un accordo surrettizio da 45 milioni, non comunicato alle autorità di vigilanza, per dare una dorata buonuscita al clan Ligresti in cambio di un semaforo verde all’operazione Unipol-Fonsai. Se davvero quel foglio di carta esiste e ha le firme di Nagel e di Salvatore Ligresti. Se davvero è però misteriosamente scomparso prima dell’arrivo degli inquirenti dalla cassaforte dell’avvocato Cristina Rossello. Se tutto cio è vero, allora la dignità e l’onore di una banca come Mediobanca non potrebbero che imporre una mossa, per lui dolorosa ma necessaria per l’istituto da lui guidato, come le sue dimissioni.
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