Qui sul pianeta Italia, settore calcio, nello stesso giorno abbiamo consegnato un buono e un cattivo al giudizio della società. Il buono è l’ormai celebre Simone Farina del Gubbio, che con una certa dose di coraggio denunciò l’umiliante tentativo di biscottarlo. L’altro, il cattivo, è decisamente Antonio Conte, l’allenatore della Juventus, a cui la Corte di Giustizia Federale ha confermato in appello la squalifica a dieci mesi per omessa denuncia. La morale di questa storia rovesciata è che l’Italia si tiene il cattivo, cioè Conte, adorandolo come fosse il sangue liquefatto di San Gennaro, e lascia partire il buono, richiesto dall’Inghilterra per raccontare ai giovani dell’Aston Villa i quattro principi base della correttezza sportiva. Rimanendo così le cose, ne converrete, non sarebbe un grande affare per noi.
Se la perdita del «buono» è decisamente parte integrante della nostra storia, si pensava almeno che ci fosse qualche remora a considerare il cattivo ancora come il segno distintivo di un Paese. La sentenza che conferma la condanna al tecnico bianconero, da questo punto di vista non aiuta: gli si è tolto un pesante fardello, considerandolo totalmente all’oscuro della combine tra Novara e Siena, dove l’accusa gli metteva in carico anche il “discorsino” nello spogliatoio, ma lo si è duramente sanzionato per l’unica partita che restava, cioè Albino Leffe-Siena. Una domanda quindi viene in automatico: erano stati troppo teneri i giudici del primo giudizio che per due capi di imputazione gli avevano affibbiato dieci mesi, o sono troppo duri questi, che gli confermano la stessa pena per una sola «colpa»?
I conti che non tornano tra buoni e cattivi sono comunque destinati a lasciare il segno. Nel mondo delle persone normali, il bravo Simone Farina – che ha avuto tutti gli onori per poi finire dimenticato come un vecchio calzino – avrebbe avuto un compito molto delicato ma di grande effetto sociale: il rieducatore di Antonio Conte (se, naturalmente, anche l’ultimo grado di giudizio ne avesse sancito la colpevolezza). Proprio così: invece che allenare la Juve durante la settimana, come se niente fudesse, Conte avrebbe dovuto passare parte delle sue giornate insieme a Farina, fare tutte le mattine colazione con lui, parlando di sport, di etica, di rapporti umani, cercando di capire cosa gli era mancato, e perché non aveva imboccato quell’ultimo miglio che lo avrebbe potuto condurre alla felicità interiore e sportiva.
Invece nulla di tutto questo. Simone parte per l’Inghilterra e ne sarà comunque estremamente felice, perché – davvero – per un uomo di sport sapersi strumento di possibile crescita morale per i giovani ragazzi che si avventurano in questa disciplina è fonte di purissima gioia. Conte, invece, inevitabilmente resta. Resta perché si dice innocente e lotterà perché la sua (presunta) innocenza gli venga riconosciuta.
Se ci lamentiamo e molto della giustizia ordinaria, reclamandone a gran voce una decisa riforma, non possiamo che considerare quella sportiva alla stregua di purissima improvvisazione umana. Dove la mancanza di garanzie minime per gli imputati rende i processi semplicemente ridicoli, ma dove – soprattutto – è la mancanza di rispetto per il cittadini, tifosi e non tifosi, ad assumere i tratti della vergogna. Non riusciamo a farci la più pallida idea dei torti e delle ragioni, mischiati in dibattiti finto-giudiziari così sincopati da sfiorare la pochade. Così non è giusto e non ci piace. Come non ci piace, di ritorno, la protervia di chi s’inventa, sempre e comunque, una «caccia alle streghe». E ogni riferimento ad Andrea Agnelli, presidente bianconero, non è affatto casuale.