PARMA – Sarà perché si tratta di latte, ma è sempre più una questione di date e scadenze. Anche il prossimo sciopero generale, infatti, è stato fissato: 28 agosto. E questa volta negli stabilimenti di Collecchio le ore di stop alla produzione non saranno due – come accaduto il 20 luglio – ma quattro. Il doppio. Segno che la tensione sta salendo e che i sindacati sono pronti a tutto, pur di mandare di traverso il piano di tagli “lacrime e sangue” presentato da Lactalis, il gruppo francese che, stando a quanto raccontano alcuni, starebbe minacciando di delocalizzare la produzione.
Anche se non si sa ancora per quanto ancora, è sempre da qui, dalla città di Maria Luigia, che occorre partire per tentare di leggere il futuro del colosso bianco. Per il presente, invece, una chiave molto pragmatica la offre Luca Ferrari, segretario provinciale della Flai-Cgil: «L’agonia continua – spiega il sindacalista – e stiamo cominciando a pagare lo scotto di aver perso la proprietà italiana del gruppo. Ormai è un’altra storia. Anche l’operazione americana è stata effettuata con 900 milioni di euro provenienti dal tesoretto di 1,5 miliardi lasciato dalla gestione commissariale di Enrico Bondi. Il bello, anzi il brutto, è che le due volte che ci siamo messi al tavolo con Lactalis loro sono stati perentori. E hanno iniziato a dirci che tutta la produzione la potrebbero spostare all’estero senza problemi. In maniera velata ci “minacciano” di delocalizzare se non accettiamo la loro decisione unilaterale. Ma la verità è un’altra: da un anno a questa parte, da quando cioè sono arrivati i francesi con la loro Opa, non si è visto il minimo sforzo per mettere sul mercato prodotti nuovi, siamo fermi a venti anni fa. Intanto il latte biologico Parmalat arriva dal Belgio e lo yogurt Kyr dalla Francia».
Così, per i lavoratori della Parmalat un’inedita stagione di lotta è dietro l’angolo. Un capitolo tutto da scrivere dopo la resurrezione dal crac Tanzi (di 14 miliardi di euro) e la cura Bondi. Momenti sì drammatici, ma mai critici dal punto di vista delle relazioni industriali. Adesso la questione è cambiata: due scioperi in poco più di un mese, roba mai vista per l’ex “Gioiellino”.
A ottobre, salvo miracoli o interventi diretti del governo, andranno in mobilità 120 addetti. Prima di Ferragosto i vertici di Parmalat hanno deciso la dismissione dello stabilimento di Genova, che opera da circa 80 anni e occupa attualmente 63 lavoratori (con un indotto di oltre cento persone nella filiera agro-alimentare). Problemi simili riguardano anche gli stabilimenti di Pavia e Como, mentre nel quartier generale di Collecchio 30 unità sono considerate in esubero. «I primi di una lunga serie – si agitano Cgil-Cisl-Uil – come previsto dal piano industriale dove si parla solo di adeguare le strutture alle vendite, quindi tagli al personale, mentre la parola rilancio è scomparsa se non sulla carta».
Almeno in Italia. Perché all’estero la multinazionale francese gioca forte e si diverte a recitare più parti nella stessa commedia: a maggio la Parmalat a capitale francese ha acquistato Lactalis Usa, il ramo statunitense del gruppo che dall’estate 2011 controlla l’azienda che fu di Tanzi. Coincidenza: entrambe le società fanno parte della Bsa Sa di proprietà della famiglia transalpina Besnier, la dinastia che dà le carte in questa partita. «Un’operazione assai discutibile», secondo gli analisti finanziari e non solo loro, tanto da aver fatto scattare l’allarme della Consob e la conseguente trasmissione degli atti dell’«affare a stelle e strisce» alla Procura di Parma.
L’aria più pesante si respira a Collecchio dove da capitale dell’impero a colonia il passo è stato breve. Nonostante tutto, qui è rimasto il braccio operativo della multinazionale: 400 addetti alla produzione, più 600 tra staff e amministrativi. Chi tra gli operai è sopravvissuto, per questioni di anzianità, alle due bufere quasi rimpiange i fasti-nefasti del Cavaliere del latte. Una nostalgia irrazionale simile a quella di certi italiani nei confronti della Prima repubblica quando si stava bene tutti, ma intanto il debito pubblico galoppava a dismisura. «Suggestioni senza senso: se siamo arrivati a questo punto è perché per dieci anni la multinazionale di Tanzi ha presentato dei bilanci falsati nascondendoli sotto a una patina di grandeur», taglia corto il deputato Pd Carmen Motta.
La parlamentare democratica ha presentato insieme ad altri colleghi liguri un’interrogazione urgente nella quale si chiede al governo di intervenire: «Non si può osservare in maniera passiva. Occorre che l’esecutivo e il ministro Passera ci dicano quale sia il reale stato della situazione della Parmalat in Italia e, laddove si rendesse necessario intervenire, quali sono le misure che intendono mettere in campo per garantire, nell’ambito delle loro competenze, il corretto sviluppo di un grande patrimonio industriale e tecnologico italiano, garantendo altresì, il mantenimento di adeguati livelli occupazionali».
«Ad oggi – sottolinea Motta – non è ben chiaro quale sia il progettoindustriale di Lactalis mentre le rappresentanze sindacali hanno espresso preoccupazione per il futuro di un patrimonio produttivo e occupazionale che va salvaguardato principalmente nel perimetro industriale italiano». «So benissimo che il mercato va rispettato», spiega ancora Motta, «ma il problema è alla base: una delle poche multinazionali italiane andava salvaguardata di più, il passato governo avrebbe dovuto investirci in un altro modo. Comunque sia, secondo me, Parmalat senza Parma non può esistere. E per questo presidierò il tavolo delle trattative convinta che poi la questione approderà a Roma».
Il commercialista Marco Pedretti, invece, è il presidente di Azioneparmalat, l’associazione dei piccoli azionisti. Su un fatto è sicuro: «Il futuro di Parmalat è fuori dalla Borsa a meno che il socio di maggioranza cambi atteggiamento dal punto di vista del mercato e dei soci di minoranza. La prime cose da fare in concreto? Interrompere le operazioni correlate – dice Pedretti – e iniziare a comunicare di più con il mercato. Poi certo, per finire, dovrebbero lanciare un’Opa di minoranza». Fatte tutte queste premesse ecco perché l’autunno si prospetta più caldo che mai.