Mi sono deciso a certificare definitivamente la mia inferiorità culturale di tifoso di calcio – e di conseguenza, temo anche la vostra – nel momento in cui ho letto che sul suo (debbo presumere enorme) polpaccio, quel gran fico di Felugo, pallanotista strabiliante, si era tatuato una bellissima poesia di Alda Merini. Di cui, per carità di patria, vorrei girarvi soltanto la prima strofa:
«Io lo conosco:/ ha riempito le mie notti con frastuoni orrendi/ ha accarezzato le mie viscere/ imbiancato i miei capelli per lo stupore».
Nel raccontare questa scelta «stravagante», Felugo spiega che questa poesia «mi rappresenta perché parla del rapporto tra Dio e l’uomo, di spiritualità, di quando capita di considerarsi soli ma in profondità non è così».
Come tutte le Olimpiadi che si perpetuano dall’antica Grecia, ogni quattro anni il tifoso-medio di calcio entra nel suo tunnel depressivo che lo porta invariabilmente a dubitare di sé e delle sue scelte un po’ belluine, a considerarsi (giustamente) il Fabrizio Corona di tutti gli sport, persino a entusiasmarsi per quelle discipline che abitualmente gli fanno ribrezzo o che durante le stagioni normali osserva con il distacco e la superiorità del milionario ridens. È uno squallido furto d’identità, che gli permette di non essere a sua volta disprezzato dal resto dei tifosi perbene (che comunque sanno e tollerano con serena rassegnazione).
Come avrete potuto apprezzare, più entusiasmante del calcio alle Olimpiadi è anche la sfida sulle Bmx, figuratevi il resto. Il calcio non è pervenuto, si gioca ma non esiste, c’è un risultato ma nessuno lo conosce, si vincono addirittura le medaglie a c’è quasi da vergognarsi a esibirle. È quel contrappasso minimo che lo Sport con la s maiuscola decide di prendersi sulla protervia calcio fila, affidando a un consesso altissimo come i Giochi il compito di dimostrare cosa sia davvero lo spirito sportivo. (Ormai anche il tennis e persino il basket hanno scarsissimo peso olimpico, equivoco insensato tra dilettanti e professionisti).
Il livello intellettuale straordinariamente basso di tutte le componenti del calcio (giocatori, dirigenti, tifosi, giornalisti) si può forse considerare la risultante finale di un mondo governato unicamente dai denari. E non è certo una consolazione ricordare come un genio come Carmelo Bene considerasse l’evoluire di Van Basten alla stregua di autentica opera d’arte (contemporanea). La potenza dell’artista permetteva a quel grande Pinocchio di ravanare al fondo dello stagno maleodorante, trasformandolo in Chanel. Piacerebbe capire cosa penserebbe oggi, il nostro amato Bene.
Ora che manca una manciata di ore alla chiusura dei Giochi, il tifoso-medio di calcio comincia a respirare dopo giorni d’apnea e si prepara al suo riscatto. Gli basterà un mezzo turno preliminare di Champions per riacquisire l’arroganza opportunamente riposta in un cantuccio in tutti questi giorni. Ricomincerà a tenere banco nei bar (qualcuno non ha mollato neppure in queste settimane, complice mercato e scommesse), riacquisterà la certezza di una primazia etico-sportiva, che soltanto un idiota e sfrenato liberismo è stato in grado di far crescere e proteggere.
E a proposito di scommesse. Ancora nelle orecchie le gesta olimpiche, abbiamo dovuto subire l’onta dei verdetti. Mi pare che i giornali (eccetto in parte Sconcerti sul Corriere della Sera) non abbiano compreso la gravità della squalifica di Antonio Conte, che secondo l’accusa, ma ora anche secondo i giudici della Disciplinare, avrebbe assistito senza batter ciglio a un duplice biscotto. Comunicandone il senso ai suoi giocatori. Questa – secondo chi scrive – non è omessa denuncia bensì, come avrebbe detto il grande Gaber, «partecipazione».
La nostra inferiorità culturale è certificata e definitiva. È utile farsene in fretta una ragione.