Agli Oscar mandiamo i Taviani, ma il miglior film della stagione è “Reality”

Agli Oscar mandiamo i Taviani, ma il miglior film della stagione è “Reality”

L’Italia per la corsa (eventuale) agli Oscar sarà rappresentata dai fratelli Taviani. Benissimo. L’importante però è che sia chiaro un punto: il miglior film italiano della stagione non è il loro Cesare deve morire ma un altro, che è appena uscito nelle sale italiane: lo firma Matteo Garrone e si intitola Reality.

«In fondo, Shakespeare (il film del duo è tratto dal suo Giulio Cesare, ndr) è universale, lo capiscono in America. Vagli a spiegare invece Napoli…». Anche così è stata ricostruita la scelta, e se fosse vero ci sarebbe da chiamare la neuro: perché se l’Italia all’estero ha un’immagine, è spessissimo l’immagine di Napoli; perché il film di Garrone ha a che vedere con l’immaginario e non con la pizza o gli spaghetti o il mandolino; e perché Cannes, dove Reality ha vinto il Gran Premio della Giuria, non ci risulta essere una località della Baia Domizia infestata di Gomorra, ma terra straniera, straniera come l’America, per quanto più vicina, ragion per cui evidentemente non c’è nulla da spiegare: si capisce tutto benissimo. Inoltre, scegliendo Reality, si sarebbe in qualche modo investito dell’onore di rappresentanza il più grande talento “giovane” del cinema italiano. Infine, Cesare deve morire è tutto girato nel carcere di Rebibbia e gli attori sono gli stessi reclusi. Eccezionali: l’impatto emotivo della loro presenza è davvero tanta parte dell’interesse film, che esibisce con forza e onestà la condizione dei suoi interpreti.

Bene, anche l’attore di Reality, Aniello Arena, è un recluso, precisamente un ergastolano del carcere di Volterra, dove grazie alla compagnia della Fortezza ha incontrato la recitazione e trovato un riscatto (ha potuto girare il film grazie ai permessi concessi dal penitenziario). E nel vederlo se ne apprezza la sua bravura trascinante: ma in quanto attore, non in quanto detenuto; ci si appassiona alla libertà del suo arbitrio, non alla sua costrizione. Il risultato è molto più sofisticato, più complesso, e più bello. Dopodiché, hanno scelto i Taviani. E allora, viva i Taviani. Ma questa forse lunga premessa è d’obbligo.

Quanto a Reality, già nello splendido inizio, una lunga sequenza aerea sull’immenso hinterland napoletano delinea i contorni di questa favola urbana: una carrozza falso-settecento trascinata da due splendidi cavalli bianchi percorre le strade basolate di Sant’Antonio Abate ed entra nel Grand Hotel La Sonrisa, un capolavoro del neo-kitsch architettonico (piccola nota extra-film: per la pubblicità della megastruttura sulle tv locali partenopee è matematicamente impossibile non sviluppare un’autentica passionaccia: garantito). Al Sonrisa si svolge un matrimonio (che sembra un set tra Hollywood e Bollywood, per certi colori, per certi visi, per l’elicottero e la Rolls-Royce da dieci metri parcheggiati fuori, per certo esotismo pur così familiare), e lì comincia l’avventura di Luciano, un pescivendolo di discreto commercio incitato a provare a entrare al Grande Fratello per la sua verve spettacolare. La trasmissione diventa un’ossessione per l’uomo: è convinto di essere chiamato, così potrà sistemarsi e realizzarsi. Ma la telefonata non arriva e lui discende la china verso un finale che non va svelato.

Chi ha voluto vederci una critica al Grande Fratello per intendere alla civiltà televisiva che ha devastato il Paese, non ha probabilmente colto il punto. Non che critiche non debbano esser mosse. Ma Reality è soprattutto una straordinaria parabola sulla potenza dell’ossessione e dell’immaginario, su come irrompe nel quotidiano un’immagine idealizzata di sé e della propria vita, immagine che piega tutto quello che trova e che rischia di lasciare macerie, o pazzia. Non molto diverso da quello di Reality è in fondo lo schema dello Sceicco bianco di Fellini, ambientato nella Roma dei primi anni Cinquanta (quando Berlusconi con le sue emittenti proprio non c’era, anzi nemmeno la Rai Tv c’era ancora), dove la provinciale, inibita, timida Wanda rischia di mandare all’aria un saldo, cattolicissimo, borghesissimo imminente matrimonio perché incontra il suo idolo dei fotoromanzi, lo Sceicco bianco col volto di Alberto Sordi (e dire che quell’Italia era molto più bigotta e contratta e asfissiante dell’odierna, e quindi la critica felliniana assai più violenta e dirompente).

In questo è straordinaria l’espressività stupita e disorientata del protagonista, Arena, che più alla grande tradizione napoletana della recitazione, sembra appartenere alla famiglia di certi personaggi popolari impastati nella creta da Vincenzo Gemito, il grande scultore partenopeo vissuto tra XIX e XX secolo. Come le figure di Gemito, Arena è attraversato da dolore e allegria, da rabbia e pacificazione. Va inoltre assolutamente menzionato il lavoro del compianto Marco Onorato alla fotografia e di Alexandre Desplat alla colonna sonora, davvero splendida. Reality, gran film.

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