Assenteismo e costi elevati, la crisi del porto di Gioia Tauro

Assenteismo e costi elevati, la crisi del porto di Gioia Tauro

Quando nella primavera dell’anno scorso il gruppo danese Maersk, il principale armatore al mondo nel trasporto marittimo di container, cambiò hub per la maggior parte dei propri servizi mediterranei di transhipment (i trasporti di container con meganavi ad un porto hub presso cui trasferirli su unità più piccole per lo smistamento “locale”) spostandoli da Gioia Tauro (dove pure era ed è azionista) a Malta, Tangeri e Port Said, per lo scalo calabrese, già da anni alle prese con la crescente concorrenza sull’altro lato del Mediterraneo, sembrò aprirsi una crisi se non irreversibile, molto seria.

Più volte nell’immediato passato Cecilia Battistello, numero uno di Contship Italia, espressione nostrana della multinazionale tedesca Eurokai e azionista di riferimento di Medcenter Container Terminal, la concessionaria del terminal contenitori di Gioia, aveva evidenziato come fra le principali criticità di Gioia Tauro in rapporto ai suoi concorrenti mediterranei (in primis gli scali nordafricani), ci fossero, oltre ai maggiori costi fiscali e del lavoro, problemi di produttività e assenteismo: nel 2010 la media delle movimentazioni orarie è stata di 22,9 (contro le quasi 30 di Port Said), mentre l’assenteismo medio fra il primo agosto 2010 e il 31 luglio 2011 del personale MCT è stato del 14,51% (18,07% considerando il solo personale di banchina).

Messaggio rilanciato pochi mesi dopo da Gianluigi Aponte, patron di MSC, secondo liner al mondo dietro Maersk, che lo scorso gennaio ha deciso di entrare nella compagine azionaria di MCT, a fianco di Contship e dei danesi, portando in dote una cospicua dose di traffici. Una decisione presa alla luce di molti fattori, non ultimo l’accordo firmato il 30 luglio 2011 dall’azienda e dai sindacati Filt-Cgil, Fit-Cisl, e Ugl – Mare, in base a cui si stabilì che la cassa integrazione straordinaria a zero ore a cui si sarebbe dovuti ricorrere per le 416 eccedenze giornaliere medie (su 1.057 dipendenti) sarebbe stata applicata non indiscriminatamente a rotazione, bensì sulla base di una valutazione del singolo lavoratore, frutto dell’interazione di tre parametri: presenza al lavoro, comportamento e merito.

Difficile infatti attribuire al caso quanto avvenuto nei mesi successivi: fra il 1 agosto 2011 e il 30 giugno 2012 l’assenteismo aziendale medio è precipitato al 4,86% (5,36% in banchina), mentre la produttività, che già nei tre mesi precedenti l’accordo aveva registrato valori crescenti, si è attestata in questo arco di tempo al valore record medio di 26,7 movimentazioni orarie. Nel frattempo, chiuso il 2011 con il pessimo risultato di 2,30 milioni di TEUs (twenty-foot equivalent unit, l’unità di misura dei container) movimentati (erano stati 2,85 nel non memorabile 2010), il primo semestre 2012 ha mostrato incoraggianti segnali di ripresa, con 1,35 milioni di TEUs movimentati, dato uguale a quello 2010.

Alla scadenza dell’accordo sulla cassa, azienda e sindacati hanno firmato il rinnovo per altri due anni (per 486 dipendenti su 1.287; a novembre MCT è stata costretta a stabilizzare oltre 200 lavoratori precari), ma al successivo (9 agosto) referendum fra i lavoratori sull’opportunità o meno di confermare l’accordo sulla turnazione basata su presenza, comportamento e merito, il “no” ha prevalso con 580 preferenze su circa un migliaio di votanti, sicché per i prossimi 24 mesi la CIGS si applicherà indiscriminatamente fra i lavoratori.

Un trionfo per il Sul – Sindacato Unitario Lavoratori, la sigla che insieme a Uil non aveva firmato l’accordo di rinnovo: «Non ci opponevamo alla cassa, indispensabile, ma alla mortificazione dei diritti civili. Il criterio dell’assenteismo (il punteggio più basso era attribuito al lavoratore con oltre il 16% di assenze, ndr) avrebbe portato i lavoratori malati a presentarsi al lavoro e avrebbe sterilizzato gli effetti della legge 53/2000 sui congedi parentali. Questo non significa che i lavoratori non manterranno l’alto senso di responsabilità finora dimostrato: del resto la produttività aveva cominciato a crescere già prima dell’accordo del luglio del 2011, grazie alla semplice sostituzione di un dirigente, mentre, per quanto riguarda l’assenteismo, questo mese di agosto ha dimostrato che di fatto non è cambiato nulla, dal momento che l’innalzamento di 1-2 punti percentuali (secondo l’azienda nel mese passato si è registrato un tasso del 7,1%, con una produttività di 26,1 movimentazioni orarie, nda) è fisiologico al decadimento delle distorsioni del precedente accordo e che tale tasso è comunque inferiore alla media nazionale», ha spiegato Antonio Pronestì, segretario del Sul.

Di ben altro tenore il giudizio della Filt-Cgil, che si era spesa per il “si”: «Prendiamo atto del risultato ma ribadiamo la bontà e la positività dell’accordo con il quale si è inteso garantire certezze, stabilità, crescita del porto e prospettive di occupazione crescente. Chi ha fatto, legittimamente, campagna contro l’accordo, con argomentazioni discutibili, non vere, senza delineare una prospettiva al porto, si è assunto la responsabilità preoccupante, che cercheremo di evitare, di determinare con promesse irrealizzabili una situazione destabilizzante, di ingovernabilità e di scarsa competitività», si legge in una nota rilasciata dopo il referendum.

Dal canto suo l’azienda non ha battuto ciglio – «proseguiamo come prevedono le norme sulla cassa integrazione, senza applicare i criteri previsti dall’accordo, con una rotazione indifferenziata» – ma è implicito l’auspicio al mantenimento del buon senso dei lavoratori che ha permesso l’aumento della produttività del terminal negli ultimi mesi.

Certo è che per il progetto, avviato l’anno scorso dopo l’addio di Maersk e guidato dalla Regione, di ampliare la prerogative di Gioia Tauro, facendone non solo uno scalo di transhipment ma sempre più un gateway di import/export per le imprese del Meridione e non solo, attraverso un’opera di defiscalizzazione e sburocratizzazione atta ad attrarre investitori – una ricetta su cui sta pensando di puntare anche la Grecia per il rilancio del porto, concorrente, del Pireo – l’esito del referendum fra i lavoratori rischia di non essere un grande atout: alleggerimento della burocrazia e facilitazioni normative sono sicuramente elementi di attrazione per chi debba investire in un porto, ma, come dimostrato dal caso MSC, l’etica del lavoro resta determinante. E in questo senso la bocciatura di un accordo che, di fatto, legava in parte la retribuzione al merito – ancorché sia prematuro valutarne gli effetti – potrebbe non essere un grande segnale per chi debba decidere se puntare su uno scalo e sul suo retroterra.

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