Venezia. Di capannello in capannello, di chiacchiera in chiacchiera, stringi stringi qui al Lido non si discute che di due film: “Pietà” di Kim Ki-duk e “Spring Breakers” di Harmony Korine. Il primo, diciottesima opera in sedici anni dell’autore sudcoreano di culto, è il film più amato dai cinefili duri e puri. Pochi personaggi, atmosfera glaciale, profonda importanza ai dettagli, tanto che a perdere qualche passaggio si rischia di dover farselo spiegare all’uscita da qualche più attento spettatore. È la storia di una vendetta di una madre, colpita nel suo affetto più caro, nei confronti di un esattore dei debiti per conto della criminalità, un sadico aguzzino che vive nella più totale solitudine sociale e sessuale: questi, su chi non ha i soldi per pagare, compie mutilazioni e sadismi vari (e qui il pensiero è corso al personaggio di Giuseppe Ferrandino, Pericle il Nero, uno che, per conto della camorra, ai debitori “faceva il culo”, e non per modo di dire; su quel romanzo pare sia al lavoro Abel Ferrara con Riccardo Scamarcio).
Kim Ki-duk lavora sul sentimento del senso di colpa, caricando la tensione al massimo senza uso di splatter ma di molti particolari piuttosto espliciti, muovendo i suoi personaggi tra interni che sembrano quinte di teatro sperimentale e i vicoli e le botteghe del vecchio quartiere industriale di Seul, dove la Sud Corea ha costruito la sua fortuna economica e dove premono i grattacieli della speculazione. È un film davvero sorprendente, che potrebbe essere baciato in fronte dalla giuria: mai timoroso di affrontare la scabrosità che la storia richiede, forte di uno stile riconoscibilissimo (lo stesso merito che va indubbiamente attribuito a “To The Wonder” di Terrence Malick, per quanto questo sia un lavoro con molte ombre).
Ma per apprezzare davvero “Pietà” giova il paragone con “Spring Breakers”: tanto l’uno non spreca nemmeno un fotogramma, tanto l’altro sovrabbonda; tanto il primo è gelido e preciso come una lama, tanto l’altro è sonoro come una scorreggia al chiuso. La trama: quattro ragazzine nelle tradizionali vacanze di primavera al college, si danno a sesso e droga, entrano in un brutto giro criminale, due di loro vendicheranno il loro mentore presso la gang rivale. Non per essere troppo esigenti, ma davvero si può costruire un film dotando i personaggi femminili poco più che di un istinto da troiette, facendole sniffare o tirare crack ogni due minuti, vestire con bikini inguinali, esibirle tette al vento, qua e là piazzando una sparatoria o un blow-job alle pistole, per infine tratteggiare una sottospecie di epico finale? Le squinzie avessero almeno fatto, al termine della sfrenata festa iniziale, un civilissimo balconing come si usa tra gli sballati di oggi, staremmo a raccontare un cortometraggio modaiolo o un videoclip gang-rap, con peraltro poco originale accozzaglia di biondazze svampite, negroni con le trecce e poi tutti li mejo coatti d’a Florida: per lo meno dopo un quarto d’ora saremmo già fuori dalla sala.
Invece tocca sorbirsi un’ora e mezzo di cinematografico nulla mischiato col niente, arrangiato da un regista senza il coraggio intellettuale di girare un pornazzo Mtv-style a base di bukkake e machine gun kelly, e invece con la pretesa disonesta di raccontare la “gioventù bruciata” di oggi. E poi non può bastare qualche messaggio appiccicato qua e là: a spruzzare profumo sulla merda, quella mica cambia odore.
In ogni caso, le due proiezioni serali per la stampa hanno offerto un po’ di allentamento della tensione, tipo birra & rutto libero, a una platea di giornalisti fiaccati dalla stanchezza e da qualche delusione, e pronti ad applaudire alle cazzate più madornali. Un po’ di sana goliardia (confidiamo sia solo quella), che magari porterà bene al film per i botteghini. Speriamo solo che i giurati non bevano troppo in questi giorni, e non decidano perciò per l’irreparabile: dargli un premio.
Il Lido in due giorni ha offerto il tappeto rosso a una vecchia e a una vegliarda gloria del cinema mondiale: Robert Redford, classe 1937, e Manoel De Oliveira, classe 1908 (sì, proprio così, ha quasi 104 anni). Redford, immagine bionda e sacra di quell’America erotica e democratica che tanto andava negli anni Settanta, è tornato a far volar il Condor dei tre giorni con il suo “The Company You Keep”, thriller politico che riprende alcune delle atmosfere del capolavoro di Sydney Pollack (ci sembra che qui usi perfino la stessa identica camicia in jeans d’allora…). Il divo liberal interpreta un avvocato, che in un’altra vita e con altro nome è stato un militante dell’estrema sinistra. È ricercato per un omicidio, che non ha commesso, a causa di un’inchiesta di un giovane giornalista scoopparolo (altra immagine gloriosamente redfordiana). Bella scrittura, atmosfere giuste, una tesa fuga attraverso l’America (e vien da chiedersi: ma quando in Italia, terra d’estremismi rossi e neri, tra Br, Lotta Continua, Ordine Nuovo, Pac e Nar, e tutti questi reduci ognuno al posto giusto, riusciremo a fare un film del genere?). Battuta da ricordare: “Siamo tutti morti, qualcuno è risorto”. Redford è bravo come regista, forse però vederlo ansimare nel jogging al parco fa davvero troppa tenerezza: meglio sarebbe stato scegliere un altro protagonista. Nick Nolte sembra ormai una balena spiaggiata, Julie Christie rimane uno schianto, per quanto ad honorem (tra l’altro, con delicata ellissi, si fa riferimento nel sottofinale a un’ultima notte di sesso col vecchio Bob, che giureremmo essere uomo rigorosamente Viagra-free).
Mollare mai: De Oliveira, quercia secolare portoghese, lavora ancora e qui alla Mostra fuori concorso ha portato “O Gebo e a Sombra”. Cast superbo: Michael Lonsdale, Jeanne Moreau e la nostra grande Claudia Cardinale. Film assolutamente da consigliare, anche come efficacissimo sonnifero omeopatico.