Un governo di tecnici non eletti dal popolo sovrano, in democrazia, è per definizione un’anomalia. Le anomalie, per definizione, devono durare meno che si può, soprattutto se rappresentano un “di meno” di democrazia. Certo, se l’anomalia è stata indispensabile alla degna sopravvivenza di un paese per due volte in vent’anni, qualcosa vorrà pur dire. Forse questa democrazia ha un problema di maturità, forse il paese in questione ha dei guai strutturali che devono essere finalmente affrontati. Ma certo, anche se la si vede così, l’anomalia resta una anomalia, e bisognerebbe essere in grado di trovare una via realistica per superarla e riassorbirla nella fisiologia democratica.
A questo, dopo tutto, dovrebbe servire questa campagna elettorale – lunga, lunghissima – che è già cominciata con la campagna per le primarie del centrosinistra. Una campagna che vale già da test per tutti o quasi gli attori già presenti sulla scena che si giocheranno il proprio spazio futuro nella campagna elettorale vera e propria, che attraverserà i primi mesi del 2013. La scomparsa di Berlusconi ha lasciato un salutare vuoto, un inatteso spazio di contendibilità del timone politico italiano. Ma in quel gigantesco cratere creatosi – dove prima stava una grande massa di consenso sicuro e, insieme, un comodo punto di riferimento per alleati e avversari di ogni tipo – si muove un po’ di tutto. La crisi economica nel tessuto del paese sta rilasciando ora effetti pesanti e assortiti: perdita di reddito, perdita di aspettative previdenziali, assottigliamento sensibile del risparmio, chiusura di intere filiere produttive, e così via. Dentro a un contesto economico globale, europeo e nazionale, che resta e resterà a lungo complesso e pieno di incognite. Nel quale servirà ancora tanto portare in dote credibilità, solidità, competenze e relazioni riconosciute. E anche e soprattutto, per l’Italia dei prossimi decenni, servirà una progettualità di lungo periodo, una visione di paese precisa, e sempre modellata attorno a dei precisi modelli di bilanci pubblici.
Credibilità nel mondo e progettualità solida per il paese: proprio quello che uno si aspetta dalla politica. Proprio quello che pretendiamo di chiedere al sistema politico perché ci convinca a votarlo. Il centrodestra sembra quel che resta di un pianeta dopo la propria esplosione. Frammenti, pulviscolo, qualche capobastone che prova a privatizzarsi, oppure il rilancio di un Albertini che iniziò a fare il sindaco un’era geologica fa, quando Forza Italia aveva da poco compiuto un anno. La Lega, il nordismo produttivo, quello di protesta e quello di opinione, gli intellettuali di Fermare il Declino, il vecchio centrismo democristiano di Casini, il “nuovo” centrismo Italia Futura, l’Idv di Di Pietro: per nessuno di questi l’ambizione è quella di esprimere un’egemonia, ma di condizionare quella altrui, o comunque di rappresentarsi come portatori di idee, interessi. Discorso assai diverso, e troppo lungo, merita il Movimento Cinque Stelle di Grillo. Appare alle cronache solo se il guru si lancia in traversate a nuoto, poi rientra nel silenzio dei media. Ma nel paese quell’onda, quella che ha portato alla conquista di Parma, esiste e continuerà ad avere margini enormi di consenso. Una ragione in più per pretendere, da chi si candida davvero realisticamente a governare, il massimo tasso di affidabilità, solidità, lungimiranza.
Nel Pd, nel centrosinistra, da tre giorni si parla un sacco di Cayman, il fondatore di Algebris Davide Serra prima risponde sul punto, poi promette querele a Bersani, e poi al Corriere e quasi oscura Renzi che aveva sfidato il segretario sui contenuti. Il punto di ragione di Serra, peraltro, c’è tutto: se sa si davere la coscienza a posto, se sa di non essere un “bandito” con o sensza virgolette, farà anche bene a far valere le sue ragioni. Il suo destino, su questa vicenda, va d’ora in poi separato da quello di Renzi, che avrebbe dovuto essere pronto a spiegare – convintamente – che fare finanza alle Cayman non è un reato, e che il suo rapporto con Serra era un rapporto di trasparente sostegno. Pazienza, ormai questa sfida quella sfida è iniziata con volgarità sui “banditi della finanza”, e qualche personalismo fuori tono, ma nulla è irreparabile, anche perchè l’Italia e chi si candida a governarlo hanno questioni molto molto serie di cui occuparsi.
Già. Là sopra, come lontani da tutti, i guai dell’Italia e chi – con continuità e pazienza, ovviamente secondo scelte precise e seguendo logiche anche aspramente criticabili – prova lavorando a risolverli. Mario Monti e i suoi ministri chiave, di sicuro, non sono stati inoperosi. Hanno fatto una riforma delle pensioni, una del lavoro, un decreto sviluppo con segnali interessanti, a tratti portatori di grandi novità potenziali, da difendere nelle more del parlamento. Tutto ampiamente perfettibile, sicuramente, ma insomma un governo che lavora e che segue un progetto evidentemente c’è. Per di più, nell’epoca in cui crisi e ricette per curarle si costruiscono su scala europea, a fare il capo del governo è Mario Monti. In Europa, alla Bce, c’è Mario Draghi, e finalmente essere italiani, in Europa, è valore aggiunto di affidabilità, di serietà, di competenza. Cose impensabili, fino a ieri, e davvero non facilmente rinunciabili – per il bene di tutti – per il futuro.
Questo governo Monti, dopo tutto, ha avuto una grande funzione di traccia per il futuro. Soprattutto, ha fissato un’asticella di serietà nel governo della cosa pubblica. Sembra poco, non lo è. In un’epoca di improvvisazioni, ha premiato solo carriere eccellenti. Con tutti i pro e i contro del caso, e le possibili storture di ogni sistema “meritocratico”, ma resta un dato di fatto. Ha dato un vero profilo europeo ed internazionale al nostro paese, rendendoci rispettabili davvero là dove, tra Parigi e Berlino, si decide continuamente la rotta di tutti. Ha commesso molti errori, ma ha anche provato a prendere diverse iniziative. Si è trovato spesso – anche qui è difficile girare gli occhi dall’altra parte – di fronte a un parlamento inadeguato a parlare serenamente di temi come la corruzione o i costi della politica.
Insomma, il punto non sono le Cayman, la propaganda da osteria, e la necessità sempre frustrata di un serio dibattito “a porte aperte” e con domande vere sul rapporto tra sinistra e finanza. Il punto è l’asticella dell’adeguatezza politica. È a quel livello, anzitutto, che devono provare ad elevarsi i contendenti a queste primarie, che poi segneranno comunque una rotta verso le elezioni politiche del 2013. I programmi sono davvero importanti, e bisogna anzitutto sforzarsi di vincere tante resistenze in chi “ai programmi non ci ho mai creduto, io guardo le persone”. E del resto, le persone sono importanti ed è importante, per tutti, sapere con chi e lungo quali obiettivi Bersani e Renzi si candidano alla guida di una coalizione, e poi di un paese. È importante sapere, anche nel dettaglio, come vengono raccolti e spesi i fondi di una campagna elettorale. È importante, importantissimo, capire anche che tipo di classe dirigente dirigerebbe non il partito, ma l’Italia, qualora l’uno o l’altro dovessero, con le primarie, lanciarsi verso Palazzo Chigi. Perché è anche valutando quella classe dirigente che si capirà il fattore di realismo del programma, perché ottime idee, analisi e proposte concrete viaggiano sulle spalle degli uomini.
E dunque, Bersani e Renzi sanno che l’asticella c’è, ed è comunque molto seria, perché è a fatta all’altezza di Mario Monti. Che, mentre loro saranno doverosamente impegnati a conquistare la guida della coalizione, continuerà a governare e a lavorare. In modo diverso, entrambi scaricano un’esperienza governativa dietro all’ovvia ragione – da cui siamo partiti – che essa costituisce un’anomalia, che deve tornare ad esprimersi appieno la democrazia, che la crisi – ha detto un Matteo Renzi quasi anti-montiano – “non è finita”. E dire che Mario Monti la crisi l’ha interpretata; ha rivendicato manovre depressive nel breve scommettendo sulla capacità di ridare energia e stabilità al sistema nel medio periodo; ci ha riportato in Europa; ha sempre dato l’impressione, soprattutto, di badare al sodo, di usare i media ora bene ora male ma senza dipenderne, di andare dritto per la sua strada, di avere un’idea che riteneva buona per molti, non per sé.
La campagna per le primarie deve insomma servirci insomma a toglierci un dubbio non da poco. La politica italiana saprà fornirci argomenti sufficienti a convincerci che possiamo fare serenamente a meno di Mario Monti? Oppure ci confermerà che di quelle modalità e di quel percorso c’è disperatamente bisogno, e la politica si sarà dimostrata, una volta di più, inadeguata snobbando Monti per sete di potere o arroganza?
La sfida è naturalmente aperta, davvero provocante, e vera. Non è cosa da poco e questo va serenamente riconosciuto, una volta di più, a Matteo Renzi che non ha ceduto di fronte alle burocrazie e alle leggi ritagliate per ridurre i danni che può apportare a un’intera classe dirigente che non ce l’ha fatta. Ma quella fase iniziale è finita, quel bonus va esaurendosi ed è il momento di costruirsene uno nuovo, che non dica più che cosa non vogliamo più ma davvero, come e con chi si vorrebbe fare l’Italia di domani. La domanda, la stessa, è quella che si deve porre a Pierluigi Bersani. Il termine di paragone – perdonerete la pedanteria finale – resta Mario Monti.