Il silenzio del governo Monti sul destino dei porti italiani

Il silenzio del governo Monti sul destino dei porti italiani

Dopo anni di inerzia e indecisione, chi si occupa di trasporti in Italia si aspettava che l’esecutivo di Mario Monti desse una sterzata decisa al trend degli ultimi anni, caratterizzato dalla totale ignavia di chi (in primis i vari ministri succedutisi ai Trasporti), timoroso di assumere decisioni impopolari o spinose, non ha mai preso in mano la situazione per fare del settore un elemento di sviluppo economico del Paese, come la posizione logistica dell’Italia e il suo ruolo di popoloso centro di consumo e di industria votata all’export avrebbero suggerito di fare.

Invece, a quasi un anno dalla nomina, il giudizio sul governo in carica per quanto riguarda i provvedimenti assunti in materia di trasporti tende decisamente all’insufficienza: manca del tutto una politica organica di settore, non sono stati intrapresi interventi puntuali che avrebbero se non altro aiutato il comparto, alcune decisioni prese sono apparse estemporanee quando non contraddittorie e su altri temi si è preferito invece sorvolare, lasciando l’onere della decisione a chi verrà dopo.

La Legge portuale (riforma della Legge 84/94)

In questo caso al governo non si può addebitare la responsabilità diretta della riforma della legge che regola l’organizzazione dei porti nazionali, lasciata volontariamente all’iniziativa parlamentare (svolto il primo passaggio in Senato, il ddl è ora alla Camera) dal momento che è almeno da 7-8 anni che si discute di questa revisione.

Tuttavia, anche alla luce dello scarso impatto riformatore che la riforma sembra destinata ad avere, appare inspiegabile – se non con un colpevole disinteresse per una materia estremamente complessa e di scarso ‘rendimento’ mediatico – l’atteggiamento ambivalente e contraddittorio tenuto dall’esecutivo sull’argomento.

Quando fu presentata la spending review, infatti, sembrava ad esempio che il numero delle Autorità portuali (gli enti territoriali facenti capo al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e deputati alla gestione degli scali considerati di interesse nazionale) fosse destinato, attraverso tagli e accorpamenti, a calare rispetto all’attuale ragguardevole quota di 23. Invece il Governo non è intervenuto in tal senso, ma ha imposto la riduzione del 10% del costo del personale, e non ha per il momento battuto ciglio di fronte al fatto che il ddl non solo non contempla la cancellazione di alcuna Autorità portuale, ma addirittura prevede – in clamoroso ossequio alla logica bipartisan del provvedimento – la riapertura di due enti (quelli di Trapani e Manfredonia) già soppressi in passato per l’evidente superfluità. 

È in ragione di questo che persino Assoporti, l’associazione delle Autorità portuali, da sempre sostenitrice della necessità di mantenere l’attuale assetto degli enti, proporrà, a fronte del mantenimento dello status quo sul costo del personale (giustificato dall’applicazione di contratti di diritto privato e prossimo ad essere riconosciuto, secondo rumor di queste ore, dal Governo), un emendamento alla Camera per evitare la resurrezione delle due Authorities soppresse. Ma anche per il fatto che le richieste di autonomia finanziaria sono state frustrate anche da questo esecutivo, seppur meno intransigente dei precedenti sul tema. 

La richiesta di integrare i finanziamenti statali alla portualità – principalmente dedicati all’infrastrutturazione e decisi sempre estemporaneamente sulla base di singoli progetti e mai, neppure nel Governo dei tecnici, in ordine ad una pianificazione capace di individuare ex ante gli scali su cui puntare per le varie tipologie di traffico e convogliare su quelli le poche risorse a disposizione – con la possibilità di trattenere una parte dell’Iva raccolta dalle Autorità portuali (secondo Assoporti saranno 13,5 miliardi di euro complessivi nel 2012), ogni porto in proporzione al proprio gettito, è stata accolta dal governo nel decreto per la crescita dello scorso giugno, ma con paletti strettissimi: ai 23 (forse 25) porti verrà infatti lasciato solo l’1% dell’Iva (130 milioni), ma con un tetto massimo di 70 milioni (briciole: basti considerare che il terminal container in costruzione a Vado Ligure ne costerà 450); e per di più solo l’80% sarà distribuito in modo proporzionale (di fatto ‘meritocratico’, perché specchio dei traffici che un porto riesce ad ‘attrarre’), mentre il 20% sarà ripartito con finalità perequative.

Pur intervenendo su aspetti delicati della gestione delle Autorità portuali (snellimento della burocrazia interna, dalle procedure per i dragaggi all’elaborazione dei Piani Regolatori Portuali, rafforzamento del ruolo del presidente a fronte di un ridimensionamento di quello del Comitato Portuale, organo composto da una moltitudine di portatori di interessi spesso contrastanti), la riforma prevede poi il mantenimento dello status quo su alcuni temi vitali, in estrema sintesi riguardanti la concorrenza sulle banchine. E ciò a dispetto delle reiterate e recentemente rilanciate indicazioni dell’Antitrust per un netto cambiamento. 

L’Agcm, in particolare, suggerisce di intervenire per chiarire ulteriormente il ruolo di “regolatore” delle Autorità portuali (ancora oggi esistono numerosi casi di partecipazioni ‘imprenditoriali’ a società fornitrici di servizi portuali, che frenano secondo l’Antitrust lo sviluppo della concorrenza), di rendere più trasparente e meno farraginoso il sistema di rilascio delle concessioni dei terminal (la riforma aggiungerebbe addirittura un complicato meccanismo di proroga) e di rivoluzionare il quadro dei servizi tecnico-nautici (rimorchio, ormeggio, pilotaggio), adottando non solo procedure pubbliche di affidamento di tali attività, ma soprattutto un diverso sistema di tariffazione (trattandosi di monopolio regolato, l’Agcm considererebbe più efficiente un metodo price cap, con la fissazione ex ante di una tariffa con la quale sta poi al fornitore del servizio, individuato con gara, ricavare un profitto, ottimizzando la propria operatività; oggi invece, sulla base di un accordo fra le varie associazioni di categoria, i servizi tecnico-nautici sono tariffati sulla base dei costi sostenuti dai singoli operatori, a cui viene aggiunto un certo margine, metodo rate-of-return, con un ruolo marginale delle singole Autorità portuali; ruolo che peraltro la riforma vorrebbe ulteriormente sminuire a fronte di un rafforzamento di quello ministeriale).

Oltre a quella dell’Agcm, sulla riforma e sui suoi (numerosi) punti deboli – «più che una riforma appare ad oggi un adeguamento della Legge 84/94», ha sentenziato il presidente di Assoporti Luigi Merlo – stanno via via emergendo, anche nell’ambito delle audizioni informali organizzate dalla Commissione trasporti della Camera, svariate altre posizioni critiche (da Confindustria a Confetra). Eppure il governo – che sulla materia ha finora ignorato anche i ripetuti appelli allo snellimento burocratico da parte degli operatori, ribaditi una settimana fa da un’interrogazione del deputato Pd Ettorte Rosato sullo snellimento delle procedure doganali – non solo non sembra intenzionato ad intervenire in modo incisivo, ma pare addirittura non avere una linea chiara: durante l’ultima occasione pubblica in cui se ne è parlato (l’assemblea di Confitarma tenutasi a Roma un paio di settimane fa), il sottosegretario ai Trasporti Guido Improta è riuscito nello spazio di pochi minuti a rassicurare prima gli armatori (nell’associazione di settore prevale la posizione dei fornitori del servizio di rimorchio, interessati al mantenimento dello status quo, piuttosto che quella degli utenti, che del resto, eccetto chi opera nel cabotaggio, lavorano principalmente in porti esteri), evidenziando «l’indirizzo del Parlamento a mantenere nella legge di riforma dell’84/94 l’attuale sistema di tariffazione e la centralità del ruolo del Ministero», salvo poi chiudere con un’affermazione ambigua su «quanto c’è da fare per aumentare il consenso politico sulla liberalizzazione dei servizi tecnico nautici».

Una posizione, quella dell’esecutivo sulla portualità, che appare quindi impalpabile quando non schizofrenica: a fronte della faticosissima riforma della legge di settore, destinata, nell’inerzia dell’esecutivo, a riformare ben poco, occorre infatti ricordare, da ultimo, non solo che nel 2013 è previsto il varo da parte della DG Transport (guidata dal vicepresidente della Commissione europea Siim Kallas) di una direttiva destinata ad indirizzare ad una maggiore liberalizzazione e ad armonizzare le normative europee in materia di porti – direttiva che giocoforza costringerà l’Italia a un nuovo (e presumibilmente complesso) intervento legislativo in materia –, ma anche che il recentemente annunciato ddl di revisione del Titolo V della Costituzione dovrebbe restituire allo Stato la competenza esclusiva in tema di «grandi reti di trasporto e di navigazione e di porti nazionali» (quando invece la riforma dell’84/94, a partire dal meccanismo di nomina dei presidenti delle Autorità portuali, è impostata interamente sulla vigente competenza concorrente fra Stato e Regioni). 

Insomma, se è grave che un governo (peraltro solo l’ultimo di una lunga serie) sembri non essersi accorto della necessità di occuparsi in maniera strutturata e approfondita di portualità (tanto più in un paese in crisi economica, dotato di 8 mila chilometri di coste al centro del Mediterraneo), dovrebbe apparire impensabile ipotizzare un Monti bis sprovvisto di una linea programmatica chiara sul tema. Eppure…
 

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