In un lungo intervento sul Foglio sul Foglio del 9 ottobre, il responsabile economia del Pd, Stefano Fassina, ha argomentato in maniera molto articolata la sua visione su Europa, crisi economica e governo Monti. Una visione che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha fatto propria specificando che l’attuale governo va ringraziato per “un’idea di rigore e di credibilità”, ma adesso servono “più lavoro e più equità”. Perché “le cose così non vanno”, né in Italia né in Europa. E aver tolto dalla Carta d’intenti della neo macchina da Risiko Pd-Sel-Psi anche il minimo sindacale di un apprezzamento per il ruolo di Monti in un frangente delicato per il nostro paese è una scelta in sintonia con queste valutazioni. Insomma: la Fassinomics è diventata ufficialmente la Bersanomics. Può essere utile, allora, analizzarla da vicino.
Un semplice esercizio quantitativo esemplifica il nucleo teorico della Fassinomics, che è stato espresso in un articolo di oltre 12.000 caratteri (spazi inclusi) in cui ricorreva nove volte la parola “mercantilista” e una sola volta la parola “produttività” (usata per condannare l’attacco del governo Monti ai diritti dei lavoratori sotto le mentite spoglie di misure, appunto, per la produttività). Si tratta di un nucleo apprezzabile per chiarezza e coerenza, ma discutibile su tre fronti: (1) l’analisi della crisi europea; (2) le misure che servono all’Italia; (3) la visione politica che si propone.
Fassina offre una ricostruzione tutta ideologica dell’unione monetaria europea, a suo dire condizionata da una “egemonia conservatrice” (Prodi compreso?). A quanto pare, anche i giurati del Nobel si sono appena lasciati contagiare dalla suddetta egemonia.
Per carità, è vero che l’euro non è un’area valutaria ottimale per la scarsa mobilità del lavoro e l’assenza d’integrazione fiscale, ma la politica (di destra e di sinistra) decise di gettare il cuore oltre l’ostacolo con la nascita della moneta unica. Il problema è che, dopo, la politica ha latitato. Oggi possiamo uscirne soltanto se le nazioni (e le famiglie politiche) europee sapranno cooperare per salvare un’infrastruttura comune per la stabilità e la crescita come l’euro, ferme restando le differenze sulle altre politiche economiche e sociali.
La Germania e le nazioni del centro dovrebbero “cooperare” accettando un po’ d’inflazione e un euro più debole (a patto che la Fed lo consenta), per dare respiro ai paesi della periferia che devono compiere un aggiustamento pesante dei salari relativi. Le nazioni periferiche dovrebbero “cooperare” facendo i compiti a casa: rigore e riforme pro crescita. Il problema è che nessuno si fida. La Germania ha paura che inflazione e svalutazione siano usate per drogare una crescita che non si sa costruire in altro modo. I paesi periferici hanno paura che il rigore, da solo, li avviti in una spirale recessiva.
In questo scenario, alimentare uno scontro tra un’Europa “buona” (quella dei progressisti) e un’Europa “cattiva” (quella dei mercantilisti) non ci porta da nessuna parte. Monti e Draghi hanno indicato una via d’uscita dalla crisi dell’euro. Porsi in discontinuità con questa via è un errore politico.
Ma veniamo al nostro paese. Secondo Fassina, la Germania si è avvantaggiata di una “svalutazione interna” contraendo i salari reali, mentre l’Italia non cresce perché la domanda non riparte. Il corollario è che lo Stato dovrebbe farla ripartire con politiche industriali e spesa sociale. Ma è davvero questo il nodo? In un precedente intervento su Linkiesta, ho avuto modo di notare come dal 1994 al 2011, l’arco temporale della Seconda Repubblica, la compensazione del lavoro sia cresciuta del 37% in Germania e del 53% in Italia, ma la produttività sia cresciuta del 31% da loro e (solo!) del 9% da noi. Non è un caso che nello stesso periodo il costo del lavoro per unità di prodotto sia cresciuto del 5% in Germania e del 40% in Italia. Tutta colpa dei tedeschi? Niente affatto: colpa della produttività stagnante nel nostro paese.
L’unico modo per aggredire questo nodo strutturale è porsi in continuità con l’agenda Monti attraverso: una riduzione del carico fiscale su lavoratori e imprese; un recupero di produttività nel pubblico impiego a colpi di valutazione e selezione; più concorrenza nei servizi (si vedano le recenti raccomandazioni dell’Antitrust); e un ridisegno dell’intervento pubblico che si concentri su capitale umano e politiche per il bisogno, lasciando compartecipare alla spesa chi può farcela da solo.
L’ultimo punto riguarda la visione politica. La polemica anti-mercantilista dell’attuale gruppo dirigente del Pd colpisce per la sua vaghezza. Di che cosa stiamo parlando? In verità, il mercantilismo è una corrente storica opposta al liberoscambismo. E del “mercatismo” coniato da Tremonti si parla solo in Italia. Che cosa c’azzeccano coi problemi dell’Italia (dove il liberismo, piuttosto che selvaggio, è sempre stato molto addomesticato)? Per quale ragione gli svantaggiati (disoccupati, lavoratori temporanei, imprenditori che competono sui mercati internazionali) dovrebbero essere interessati a “definire un ordine egemonico” (Fassina dixit) piuttosto che a proposte che rimettano in moto il paese?
Agitare termini tanto fumosi può forse servire a mobilitare qualche settore dell’elettorato sensibile ai richiami della foresta ideologica, ma difficilmente permetterà di entrare in sintonia con un paese alla ricerca di soluzioni. E lo stesso vale per la svalutazione dell’agenda Monti, che viene liquidata dicendo: grazie, ma adesso siamo in un’altra fase. Un’altra fase? Dopo un anno in cui si è iniziato ad aggredire problemi che nessuno affrontava da decenni, adesso siamo magicamente in un’altra fase? Se questo è tutto quello che il Pd ha da dire a chi gli chiede se si porrà in continuità con l’agenda Monti, non c’è da stupirsi se questa “altra fase” – in cui apparentemente ci aspettano guerre ideologiche contro mercantilisti nero vestiti – tolga il sonno agli italiani. Allacciamo le cinture.