Post SilvioNew York, la capitale del mondo si sente fuori dal mondo

New York, la capitale del mondo si sente fuori dal mondo

New York City. “A New York non è importante la politica, sono importanti le persone. Voglio enfatizzarlo: contano le persone, non la politica. I politici vengono qui a prendere soldi, e fanno bene perchè qui ci sono un sacco di ricchi. Ma noi di New York siamo sempre pronti ad aiutarci, tutto il tempo, perché siamo una città in cui c’è tutto il mondo mischiato, condensato, riassunto. Ed è per questo che, da Harlem al Queens, da Brooklyn a lower Manhattan, siamo tutti uniti in nome dell’umanità e non della politica, tanto più adesso che è arrivata Sandy a disturbarci…”.

L’evento tragico, il cataclisma che ha preso il nome di Sandy, sembra tirare fuori in molti americani della East Cost, e in tanti newyorkesi in particolare, quello spirito fondativo di libertà eguale, di opportunità distribuita con razionalità a tutti. Di una solidarietà nata cento generazioni fa, nelle quarantene di Ellis Island, in cui i colori della pelle iniziavano a mischiarsi prima ancora di entrare nella città.

Chi racconta col sorriso questo Melting Pot è Manza, afroamericano 51enne, cuoco in un grande ristorante sullo Houdson con in faccia il New Jersey. Nato in North Carolina ma neyorkese acquisito – “ma anche tu sei newyorkese, se sei qui sei newyorkese, non lo hai ancora capito?” -, e orgogliosissimo di esserlo, si racconta sorridente da quel pezzo di Manhattan, ampiamente maggioritario, in cui Sandy è solo il nome di un disastro capitato altrove. Vicino, ma in fondo lontano. Già, perchè quello che non si capisce, lontano da qui, è che nella Manhattan di Manza, sopra il Central Park nelle strade che puntano verso l’alto di quello che fu, fino a prima di Rudolph Giuliani, il “ghetto” di Harlem Sandy ha sradicato qualche albero, rotto qualche vetro e intristito i sorrisi dei bambini che aspettavano con ansia Halloween con le sua maschere e le sue zucche. “Noi ad Harlem siamo stati fortunati, ed è per questo che dobbiamo aiutare i nostri amici meno fortunati di lower Manhattan, dove Sandy ha fatto disastri”. In poche parole Manza descrive senza enfasi né ombra di invidia o rivalsa la stranezza di questa Sandy: che ha flagellato le case dei ricchi in Connecticut e New Jersey, che ha messo paura e lasciato al buio la Manhattan della grande finanza, che ha isolato dal mondo Manhattan e ha risparmiato proprio Harlem. Così, gli ispanici affollano le loro strade e i loro locali, gli afroamericani e i cinesi vanno avanti e indietro e Harlem, con una strana tranquillità scritta in faccia, si gode il suo improvviso privilegio: essere il posto più sicuro di Manhattan.

È in giorni come questi, peraltro, in cui Ney York in generale e Manhattan in particolare fatica a riaprire porti e ponti col mondo, che si vede di più e meglio la sua struttura di città-mondo. Di un luogo in cui il mondo c’è già tutto, e strati sociali, etnie e professioni sono rappresentate – come fosse un’indagine sociale – tutte, dall’alto in basso. E dal basso all’alto – ti raccontano tanti residente, orgogliosi – tutti ci si attiva per dare una mano, per chiamare i pompieri e mettersi a disposizione delle autorità e fare ciò che può servire nella nostra zona. “In Italia stiamo fermi, ci lamentiamo e aspettiamo che arrivi lo stato, la protezione civile, Bertolaso…” ride amaro un italiano che lavora a New York, vive nel Connecticut e gestisce un fondo di private equity. “Qui, pragmaticamente, ci si rimbocca tutti le maniche anche se si è abituati a stare seduti per 16 ore al giorno ad una scrivania, si lavora per sistemare casa e si evita di venire a New York, in giorni in cui questo creerebbe solo nuovi problemi a tutti…”.

Colpisce, in effetti, l’ordine, la precisione, la serenità con cui nella lower Manhattan del black out le persone fanno la coda tranquilli per ricaricare i telefoni fuori dai negozi che hanno messo a disposizione i generatori o per comprare enormi pacchi di candele, prima di tornare a casa. Lontana, sempre più lontana, la campagna elettorale in cui Obama si gioca la rielezione. Sandy ha aiutato il presidente o no? Quasi a sorpresa – almeno per chi è abituato alla politica senza p maiuscola di casa nostra – è arrivato ieri un grande aperto elogio di Obama da parte di Chris Christie, governatore del New Jersey devastato da Sandy. Lui, grande supporter di Romney e anti-obamiano radicale, nemico giurato della sua riforma sanitaria, ha avuto parola di aperto, sentito e grande elogio per la gestione dell’emergenza da parte della amministrazione Obama. “Lo aiuterà a vincere, vedrai…”, dicono in tanti, confermando l’immagine – la stessa che ci raccontava Manza, ad Harlem – di un paese in cui di fronte al disastro vince il pragmatismo e, al fondo di tutto, lo spirito di realtà che ha forgiato il Dna di questo paese lungo le prime sfide della frontiera.

“Senti, scusa se te lo dico, ma sarebbe meglio che non ci fermassimo troppo a lungo a fare fotografie”. Inglese americano con reminiscenze di accento orientale, un taxista sui 35 anni mette fretta a chi, nel buio irreale di lower Manhattan, voleva fermarsi per fermare il dettaglio, lo scenario unico e – si spera – irripetibile. “Vedi, tutti gli eventi sono stati annullati, anche Halloween è stata una festa in tono minore e io son venuto a lavorare solo per aiutare la gente che non ha i mezzi… Ci è stato chiesto uno sforzo ed eccoci qui, a guidare nel buio pesto e nel pericolo…” Esagera? Non proprio, in effetti, perché mano a mano che la città riprende vita e si anima, ci si accorge di quanto faccia impressione una fiumana di macchine che si muove nel buio pesto della sera che precede il giorno Halloween. E lui, che ne pensa della campagna elettorale che finisce di colpo, troncata da Sandy? “Eh, è il mio primo voto da americano, ho ottenuto la cittadinanza da tre anni. Vengo dal Nepal, e sono qui da quasi vent’anni…”.

Un ricordo lontano, la sua emigrazione giovanile, per studiare informatica e “avere un futuro migliore. Ma non ho finito, per me costava troppo, in quanto ero straniero e dovevo pagare tasse più alte, troppo alte. Insomma, eccomi qui, in un taxi”. Col quale, ogni mattina, arriva dal Queens per fare su e giù per le strade di Manhattan. “Voterò per Obama, sta facendo molte cose belle per noi della middle class”. E fa niente se tecnicamente un taxista che abita in fondo al Queens e fa fatica a far studiare i figli non è, storicamente e tecnicamente, middle class. Sociologia e accademia vanno a farsi benedire, dopo tutto, quando ci si accorge che il sogno americano funziona oggi come sempre: Sandy diventerà ricordo, la crisi economica diventerà fattore di una nuova normalità e ognuno potrà provare a costruirsi il suo.

(fotografie di Federica Verona)

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