Riproponiamo un nostro editoriale del 5 settembre, nella sera in cui – al di là della netta affermazione di Bersani – diventa ufficiale che, nel paese, la voglia di cambiamento del ceto politico esiste e vuole essere rappresentata.
“Hai ragione su tutto, ma io questo in pubblico non posso dirlo”. “È tutto vero, ma politicamente questa linea non la teniamo”. “Ah, se solo si potesse spiegare: ma non si può, quindi meglio tacere”.
È questa solo una piccola antologia di quanto spesso, lungo gli anni, ci si è sentito dire da alti dirigenti dei Ds prima e del Pd poi. Ci sono alcuni che da anni lo ripetono, su molti temi: “Son d’accordo su tutto, ma non posso dirlo”.
Di solito queste risposte arrivano dopo frasi come: “Sul Sulcis e su Alcoa non ha senso spendere altre risorse pubbliche per sostenere un’occupazione che non è lavoro, ma welfare assistenziale”. “Un taglio della spesa serio va fatto, e andrebbe destinato subito all’abbassamento delle tasse su nuove imprese ad alto valore aggiunto e sul lavoro salariato sotto i 50 mila euro l’anno”. “Bisogna tassare fortemente i fuoricorso in università: laureati a 32 anni senza mai aver lavorato un giorno non fanno bene a nessuno”.
Chi muove queste obiezioni, evidentemente, non crede che l’attuale maggioranza della base del Partito Democratico sia invariabilmente la migliore né la più solida per vincere le elezioni e, soprattutto, per migliorare il paese dopo averlo fatto. Eppure, alla testa del partito, tra quelli che decidono strategie, uomini, linee il consenso storico è sempre questo: “posizioni troppo avanzate, la base non reggerebbe”.
Evidentemente, loro son convinti che la base attuale sia la migliore, ed avendo in effetti garantito meravigliose carriere a tutti loro è difficile che possano pensare il contrario. Del resto, quel che viene detto in via confidenziale somiglia molto a quel che viene fatto in concreto, quando c’è occasione di governare. O meglio quel che non viene fatto, o quel che viene impedito di fare: sul lavoro, sulle pensioni, sulle tasse, sull’università, sull’impresa, sulla burocrazia. Su tutto o quasi. Il centrosinistra che ha governato negli intervalli faticosissimamente strappati (e pessimamente onorati) a Berlusconi si è mostrato sempre conservatore: come chi, appunto deve conservare quello che ha. Solo che, nel frattempo, quello “che ha” è diventato sempre più piccolo (forse anche grazie al declino di Berlusconi?) eppure è percepito come sufficiente a vincere con ampio margini, tanto da aver già iniziata oggi la spartizione di poltrone per il dopo-voto. Bersani, Rosy Bindi, D’Alema, Veltroni, Franceschini, Fioroni: questi i nomi che girano, confermati e dettagliati oggi su Repubblica da Goffredo De Marchis, per la spartizione già in corso.
È su questo fondale che merita forse di essere valutata sempre la campagna condotta da Matteo Renzi. Anche chi come noi ritiene che Renzi debba ancora dimostrare tutto – le migliori democrazie sono del resto assai esigenti… – non deve scordarsi quali sono le regole del gioco. Regole obsolete di un gioco un po’ malato, tanto per essere chiari, in cui si arriva addirittura ad ipotizzare di “congelare” le primarie, o si arriva a pensare di costruire un pezzo di legge elettorale ritagliata attorno agli ottimati dei partiti, per escluderli dal crudele gioco delle preferenze prima ancora di averle reintrodotte. È insomma, la candidatura (promettente, scarsa, narcisistica, velleitaria, ridicola – definitela come volete, tanto esiste) di Matteo Renzi a guidare il partito democratico, il centrosinistra, e potenzialmente il governo, e ha un merito che non può essere dissipato da nessun demerito: mette i piedi nel piatto in cui senza preoccuparsi del mondo ci si divideva serenamente le porzioni. Tanto sereno voleva essere il clima da riappacificare, contro Renzi, addirittura D’Alema e Veltroni: ormai entrambi oltre la soglia anagrafica che segna la fine del protagonismo politico, almeno nei paesi più avanzati.
Sgombriamo insomma il campo delle ovvietà che per la classe dirigente italiana ovvie non sono mai: Renzi può e deve partecipare ad armi pari con tutti, e le resistenze oppostegli dimostrano quanto importante sia che quella sfida sia stata da lui lanciata, e quanto meriti di non essere giocata – da Renzi e dai suoi – solo per potersi pesare in un partito guidato dai capi di adesso.
Detto questo, parleremo volentieri, criticamente e nel merito, di Matteo Renzi e del suo progetto politico per il Pd e per il paese. Fin da subito, però, alcune domande sui “prossimi passi” e sulle questioni di fondo sono urgenti: e servono proprio per non ricadere, come i maggiorenti della politica che Renzi piccona, nelle stesse patologie che vedono la tattica e il tornaconto di breve periodo prevalere su interessi e visioni più larghe. E dunque, Renzi deve anzitutto chiarire che Italia pensa, che Italia conosce, dove vorrebbe portare il paese, e lungo quali scelte strategiche. Deve dirci – al di là delle grossolane ironie di Casini – come parlerebbe adesso alla Merkel di Italia e di Europa, e come la vede davvero su parole come industria, tasse, sviluppo, urbanistica ed edilizia, pubblico impiego, sanità, università e scuola. Deve dire come e cosa porterà con sé dell’esperienza di governo di Mario Monti. Un programma? Sì, per ambire a un partito di governo e poi al governo un programma è indispensabile. Dovrebbe anche iniziare a dire, poi, con chi vuole pensare al paese ed eventualmente farlo, fugando quella strana nomea da “corte dei miracoli” che si porta dietro un pezzo di establishment renziano e fiorentinissimo. Dovrebbe insomma sfidare il senso comune che lo vuole vuoto, privo di idee forti sulla politica delle cose da fare e provare a dimostrare che è un luogo comune. Dovrebbe anche mostrare l’umiltà che serve per cercare intelligenze ed eccellenze in maniera partecipata e aperta, accettando che la prima emergenza del paese parte da una classe dirigente che fatica sempre di più a circondarsi di competenze acute e, per definizione non sono accomodanti.
Insomma, la lista della spesa è lunga e si allungherà – nei confronti di Renzi, e di tutti gli altri – mano a mano che le scadenze elettorali si faranno più vicine. Una cosa però va riconosciuta a Renzi: ha rotto uno schema che per i maggiorenti sembrava solido e immarcescibile. E ha detto con chiarezza che se perderà le primarie non accetterà premi di consolazione. Dovrebbe essere il minimo, non trovate? E invece no: in Italia (e nel Pd) basta lanciare davvero uno sfida per fare bella figura e mettere in subbuglio un intero museo delle cere.
(prima pubblicazione: 5 Settembre)