Nell’Egitto post Mubarak si chiede lavoro e democrazia

Nell’Egitto post Mubarak si chiede lavoro e democrazia

«L’economia è distrutta». È quello che ha dichiarato, la sera dell’8 dicembre, il solitamente pacato primo ministro egiziano Hisham Qandil. Parole dure come pietre. Pronunciate nel mezzo di una delle peggiori crisi politiche, ma anche sociali ed economiche, dell’Egitto post-Mubarak: quella scatenata dal controverso decreto costituzionale (annunciato il 22 novembre, e ritirato il 9 dicembre) con cui il presidente Mohammed Morsi ha cercato di ampliare e consolidare i suoi poteri. Una mossa giudicata autoritaria da una significativa parte della popolazione egiziana.

A detta di Qandil, «le scene di uccisioni e vandalismo» hanno gettato sull’Egitto un’ombra di diffidenza. Diffidenza capace di spaventare gli investitori e ostacolare gli aiuti da parte di altri Paesi. Ecco perché, sempre a parere del primo ministro, è importante che il referendum previsto per il 15 e 22 dicembre approvi la nuova Costituzione. Sarebbe un modo per tranquillizzare i mercati e la comunità internazionale.

Da quando Morsi ha ritirato il controverso decreto, in Egitto è tornata un po’ di tranquillità. Gli scontri tra simpatizzanti e oppositori del presidente sono cessati, e le manifestazioni hanno assunto toni relativamente pacifici. Ma la situazione resta tesa. Il presidente egiziano si è guadagnato, tra i suoi detrattori, la nomea di “aspirante dittatore”. “Nuovo Faraone”. E poi il ricordo degli scontri, ovviamente, è ancora freschissimo: mercoledì 5 dicembre, la giornata più nera, sono morte cinque persone e centinaia sono rimaste ferite.

Sahar Talaat, corrispondente di Radio France Internationale, è stata vittima di un’aggressione da parte di un gruppo di simpatizzanti del presidente. «La voce dei giornalisti egiziani – dichiara Talaat a Linkiesta – è ancora minacciata dalla continua pressione che i media subiscono. Ma continueremo a lottare per un Paese che difenda le libertà e i diritti di tutti i cittadini». 

La Primavera araba è quindi fallita in Egitto? «Morsi non è un nuovo Mubarak – risponde deciso Ahmed Samy, docente di arabo al Centro Francese di Cultura e Cooperazione del Cairo – ma si direbbe che non abbia imparato la lezione da ciò che è accaduto al suo predecessore». Sembra quasi che in Egitto si stia producendo una profonda frattura tra i simpatizzanti e gli oppositori del governo islamista. Ma non è così secondo la ricercatrice Leslie Piquemal, specializzata nello studio del movimento dei Fratelli Musulmani, e residente al Cairo dal 2007. «Le persone che stanno protestando nelle strade non sono necessariamente anti islamiste. – spiega a Linkiesta – . Il decreto costituzionale annunciato da Morsi è stato interpretato da molti come un passo verso l’autoritarismo. Da una parte permetteva al presidente di poter prendere qualunque misura ritenesse opportuna per garantire la sicurezza nazionale e proteggere la rivoluzione. Dall’altra rendeva le sue decisioni immuni dal controllo giudiziario».  

Una situazione difficile, quella del nuovo Egitto. Terza economia del continente africano, aspirante nazione leader del mondo arabo, al pari della Tunisia esce da una stagione rivoluzionaria, ed è ora in cerca della sua strada. Secondo Samir Makdisi, professore emerito di economia e distinguished senior fellow dell’Istituto Issam Fares – Università Americana di Beirut, «a quasi due anni dalle rivolte in Tunisia ed Egitto, la vera incognita è se le proteste avranno dato inizio ad un’autentica evoluzione da un sistema autocratico ad una democrazia reale».

Per Makdisi «sono due le condizioni necessarie al successo della transizione in Tunisia ed Egitto. La prima è la capacità di creare istituzioni politiche realmente rappresentative e trasparenti. La seconda è una strategia economica a lungo termine che assicuri maggiori opportunità di impiego, e che garantisca un posto importante per la giustizia e l’uguaglianza nella nuova politica economica». 

E infatti è bene ricordare che le proteste popolari dietro il crollo del regime di Mubarak nel 2011 non hanno avuto solo cause politiche, ma anche economiche. Di più: povertà e precarietà sono stati tra i fattori scatenanti della rivoluzione egiziana. In quei giorni «Pane, libertà, giustizia sociale» è stato uno degli slogan più gridati dalla gente. 

L’economia continua ad avere un peso schiacciante anche oggi. Come spiega a Linkiesta Iván Martín, ricercatore associato dell’Istituto Complutense di Studi Internazionali di Madrid, «il fatto che le condizioni economiche non migliorino e la mancanza di prospettive di impiego, contribuiscono alla frustrazione di una gran parte della popolazione, e in particolare dei giovani, che ritengono che la rivoluzione non si sia tradotta in migliori prospettive né in migliori condizioni di vita». 

Al contrario, la caduta del regime di Mubarak ha avuto pesanti ricadute sull’economia egiziana. «Gli investimenti diretti esteri hanno risentito della situazione – spiega a Linkiesta Alaa El-Shazly, docente di economia all’Università del Cairo – e ciò ha provocato un’emorragia delle riserve in valuta estera che, da 36 miliardi di dollari, sono calate ai 15.5 miliardi [del febbraio 2012]. L’incertezza politica non permette all’Egitto di realizzare appieno le sue potenzialità a livello economico».  

Se si escludono i negoziati con il Fondo monetario internazionale per un prestito da quasi 5 miliardi di dollari, il governo egiziano «non sembra avere un vero e proprio programma economico per risolvere la crisi nella quale versa il Paese» – sottolinea a Linkiesta Simon Neaime, professore di economia nonché direttore dell’Istituto di Economia finanziaria dell’Università Americana di Beirut. 

Secondo Martín, co-autore del rapporto “Union for the Mediterranean review: the challenge of youth employment in the Mediterranean”, la disoccupazione è una delle maggiori sfide per l’economia egiziana. Come dichiara dal suo ufficio a Madrid, «il tasso di disoccupazione nel dicembre 2011 era del 12,4%. In realtà, però, solo un egiziano su tre ha un lavoro. I tassi di inattività sono molto alti. La percentuale di giovani disoccupati e che non seguono nemmeno programmi di studio o formazione supera il 40%, contro il 23% della Spagna, il Paese occidentale con il maggior problema di disoccupazione giovanile. Soltanto per non far aumentare il numero di disoccupati sarebbe necessario creare più di 750.000 posti di lavoro all’anno».

Per centrare un obiettivo come quello indicato da Martín, il Pil egiziano dovrebbe crescere, come minimo, del 6% l’anno. Un tasso che non viene raggiunto dal 2008, quando il Paese registrò una crescita di poco superiore al 7 per cento. Nel 2009 la crescita si limitò al 4,7%, raggiungendo il 5% l’anno successivo. Poi la brusca battuta d’arresto. Nel febbraio del 2011 Mubarak si dimetteva, lasciando il potere al Consiglio Supremo delle Forze Armate. L’Egitto entrava così in una fase di transizione che non sembra essere ancora finita. Manifestazioni, scontri e tensioni. Da un lato i militari, dall’altro una parte importante della società ostile al generale Tantawi e che, fino all’ultimo, non ha creduto alle sue promesse di lasciare il governo subito dopo le elezioni presidenziali. E intanto la crescita crollava, attestandosi intorno all’1,8 per cento. 

Sulle prospettive a breve dell’economia El-Shazly non sembra essere molto ottimista. «Il governo prevede di poter raggiungere il 3% per quest’anno fiscale, ma sarà difficile a causa delle attuali agitazioni». E dire che quando Morsi aveva giurato come presidente la borsa egiziana aveva festeggiato, vedendo in ciò un vero segnale di speranza per il ritorno a un ambiente politico più stabile e affidabile. Tuttavia la recente crisi non offre esattamente un’immagine di stabilità. E in borsa se ne sono accorti. L’EGX30 il 13 novembre superava i 5.600 punti, in questi giorni è intorno ai 5.100 punti. «Le possibili implicazioni della caduta del mercato azionario egiziano sul Pil del 2012 potrebbero essere devastanti, se questa crisi dovesse continuare», avverte Neaime. 

Secondo il Fmi nel 2013 l’Egitto dovrebbe riprendersi, crescendo del 3,3 per cento. Tale stima però non basta a rincuorare gli egiziani. Che in campo economico vogliono miglioramenti tangibili e rapidi. «Il governo ha aumentato il salario minimo, e ha dedicato una crescente quantità di investimenti alla creazione di posti di lavoro – riconosce Martín – . Ma in economia i risultati non arrivano certo dalla mattina alla sera». Se non bastasse, proprio l’aumento dei salari minimi e il calo delle entrate fiscali, dovuto all’anemica attività economica, hanno fatto lievitare il deficit all’11% (ben oltre l’8,6% che era stato previsto), destando ulteriori preoccupazioni fra gli investitori internazionali.

«C’è bisogno di un intervento del Fmi perché l’Egitto possa attuare un piano economico che risolva alcuni dei suoi problemi. – spiega Neaime – . Il Cairo ha sempre fatto affidamento sugli aiuti dall’estero per coprire parte del proprio disavanzo.» Ai tempi di Mubarak questi aiuti arrivavano prevalentemente dagli Stati Uniti. Nel secondo semestre del 2011, invece, sono stati Arabia Saudita e Qatar a versare mezzo miliardo di dollari a testa nelle casse del Paese. Un fiume di petrodollari, che la dice lunga sugli odierni equilibri in Medio Oriente. Altri attori, come l’Unione europea, «stanno aspettando che l’Egitto firmi l’accordo con il Fmi – dice El-Shazly – . È il segnale di cui hanno bisogno investitori e finanziatori internazionali per essere sicuri che l’economia egiziana sia sulla via della ripresa, e che il Paese sia tornato alla stabilità». 

La situazione, insomma, non è rosea. Ma sarebbe grave non vedere quel che c’è di buono nel nuovo Egitto. Ne è convinta Silvia Colombo, ricercatrice presso l’Istituto affari internazionali di Roma. «Credo che gli aspetti positivi del cambiamento in atto debbano essere continuamente evidenziati – dice a Linkiesta – . In Egitto si è creata una dinamica completamente nuova che vede l’emergere dei cittadini, dei movimenti sociali, delle fasce più giovani della popolazione quali attori del cambiamento liberi di esprimere le loro posizioni. Certo, le continue proteste e i sit-in non fanno bene alla stabilità del Paese. Ma mostrano una vitalità e una speranza nel cambiamento che dovrebbe essere sempre ricordata, anche dagli osservatori esterni».

In effetti anche Piquemal sottolinea il nuovo, profondo interesse della gente per la politica. «Ne parlano i proprietari dei negozi, i camerieri nei bar, le persone per strada. È un grande cambiamento, tutti lo notano. I cittadini sono diventati più risoluti quanto alle loro vite. Addirittura conosco donne che, dopo la rivoluzione, hanno smesso di portare l’hijab, il velo. Ora si sentono più libere di scegliere, e hanno rifiutato qualcosa che era stata loro imposta dalla famiglia». Un’evoluzione importante per l’Egitto. Certo, la transizione è difficile. Del resto «non si può pensare che processi simili possano essere liquidati in così poco tempo» chiarisce la Colombo. 

L’aspirazione degli egiziani a uno stato veramente democratico si intreccia con l’esigenza di un miglioramento reale delle loro condizioni economiche. E non potrebbe essere altrimenti. «La sfida più grande per la regione araba, e non solo, è riuscire a garantire uno sviluppo qualitativo. Finora grandi parti delle popolazioni dei paesi arabi (soprattutto di quelli che non sono ricchi grazie al petrolio) sono state escluse dai benefici della crescita. Si è trattato perciò di una crescita non inclusiva. – sottolinea il professor Makdisi, riferendosi a quella che in un recente studio economico è stata definita “crescita infelice”». Secondo l’economista libanese, proprio qui sta la chiave per soddisfare le aspirazioni, sia politiche che economiche, della regione. «Se i governi arabi diventeranno più democratici e partecipativi, dedicheranno anche maggiore attenzione all’uguaglianza socio-economica e alla crescita inclusiva delle loro società».  

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