Finisce tanti a pochi, in un recinto in cui c’era spazio per pochi. Finisce che nel perimetro del centrosinistra, e secondo le regole preferite da quelli che poi hanno vinto, c’è una maggioranza netta e una minoranza cospicua. Vedremo come tutto questo si organizzerà politicamente, ma il dato è definitivo: due su tre votano per Bersani, a queste primarie del centrosinistra culminate in una sfida vera tutta all’interno del partito democratico. La prima vera sfida politica da un pezzo, e tutta nel perimetro di una parte e, infine, di un partito.
Finisce – inutile ripetersi a lungo – con la vittoria di un paio di apparati, di due o tre nomenclature, e di alcune generazioni, tendenzialmente tutte sopra i cinquanta, fatto salvo un blocco di dirigenti organici quarantenni. Vincono i sindacati, il pubblico impiego, le vecchie militanze comuniste e il piccolo ghetto superstite di democristiani alla Fioroni and Rosy Bindi. Perde un modello di politica leggera e post-ideologica, aperta a contaminazioni dal concreto e dal paese reale, ma acerba ancora nei mezzi, nell’organizzazione, nella preparazione. Di sicuro non adeguata a sconfiggere i custodi delle chiavi del partito, i Bersani e una fitta schiera di dirigenti: che stanno in parlamento, nelle istituzioni rappresentative a livello regionale e locale, e in quel che resta delle sezioni. Ma è difficile credere, in ogni caso, che chi oggi esulta per Bersani lo faccia in nome di una radicale innovazione, a meno che non sia un fervente militante bersaniano. Lo fa, nella migliore delle ipotesi, perché il rischio che la rottamazione diventasse un casino era troppo elevato. Lo fa, semplicemente, perché la conservazione dell’esistente sembra la miglior tutela dei propri interessi. O ancora, lo fa perchè conta che la candidatura di Bersani ci porti in ogni caso verso una nuova formula di governo Monti.
Nonostante le regole asfittiche e una certa, fastidiosa tentazione alla prepotenza, l’establishment del Pd rappresentato da Bersani vince in ogni caso con merito: è più forte, e i più forti nove volte su dieci vincono in tutti i giochi. E a questo punto, però, è doveroso parlare, anche apertamente, della gestione della vittoria e della sconfitta. Chi ha perduto, infatti, non può essere trattato come un Gianburrasca cui concedere una quota – più o meno vicina a quella ottenuta nei seggi – di parlamentari al prossimo giro, e qualche compensazione nel partito. Invece, chi ha perduto, proprio perché ha obbligato tutta la nomenclatura a una sfida che ha tratti le ha messo davvero tanta paura, va trattato come un interlocutore che davvero deve innervare di questa evidente forza il partito democratico. Senza paura di ripetere: non con una quota di parlamentari di fede “renziana”, ma con una vera opera di contaminazione e di apertura alla realtà.
Quel che serve al Pd, infatti, non è semplicemente una robusta corrente di minoranza interna, facilmente etichettabile con anacronismi come “corrente di destra”, ma piuttosto una vera apertura all’Italia: un paese da cui l’establishment di Bersani è in moltissimi casi lontano, estraneo. O meglio, ne frequenta da decenni un pezzo sempre più esiguo, mentre là fuori c’è un mondo bellissimo (dipende dai punti di vista, naturalmente) fatto di nuovi lavori, di percorsi di precarietà felice (o più spesso no) e dalla voglia di essere imprenditori di se stessi, che i burocratici delle segrete stanze del Pd ogni tanto citano, ma non sembrano conoscerlo. Neanche Renzi e il suo movimento sono immuni da pecche, ovviamente, ma di certo il loro risultato dice che un’Italia, che ha voglia di fare politica, di esprimersi politicamente in modo esplicito, esiste.
È un paese reale fatto di gente che lavora, che emigra, che ha una professione e una rete, che ha un rapporto complicato con un fisco veramente esigente e non si capisce perché. È un’Italia che sta soprattutto al nord, quella di Renzi, dove il disincanto per tutte le promesse dell’ultimo ventennio brucia di più e dove però il nordismo politico ha lasciato la non sgradevole eredità, che il “voto di opinione” possa arrivare anche nelle città lombarde che guardano la Svizzera, di là da un lago. E poi, è un paese di attivisti, di realtà civiche con tradizioni lunghe – alcuni vengono dal cattolicesimo, e altri no – e in tanti, tra quanti hanno creduto davvero in Renzi e in questa chance, hanno un senso alto della politica. Sono persone per cui la politica è cosa alta, l’impegno per il bene condiviso è un bene prezioso, e la passionaccia di fare tardi la notte, parlando e ragionando su come si possano fare meglio le cose, ce l’hanno.
Ecco. Nel prendersi l’onore e i tanti oneri di una vittoria evidente, meritata, Bersani non dimentichi che, senza la forza che Matteo Renzi ha portato con sé, questa stessa vittoria non varrebbe quasi niente. Non sarebbe una legittimazione politica. Non sarebbe un trionfo della democrazia e della voglia di partecipazione. Non sarebbe nemmeno un’occasione per riflettere sui propri errori, ma solo un’altra – l’ennesima – occasione per giocare in difesa, celebrando una messa per pochi iniziati. Bersani e i suoi dirigenti, ora che hanno vinto le primarie, abbandonino la paura che troppo spesso li ha mossi in questi mesi. Chiedano a Matteo Renzi e al suo mondo di contribuire, davvero, a un progetto di apertura del partito, delle sue strutture di trasmissione, dei suoi antichi poderi e dei suoi seggi. Chiedano a chi li ha sfidati di portare il cambiamento in modo organizzato, sistematico, idee, progetti, esperienze e intelligenze. E si impegni – il partito – a portarli in parlamento e, semmai, al governo. Serve al paese e serve al partito, anche per dimostrare che non basta ripetere che bisogna rinnovarsi e aprirsi a persone che vengono dal mondo, ma bisogna anche farlo, davvero, rinunciando ai privilegi. Quegli stessi per i quali la politica tutta è messa in croce, con successo, dal principale esponente dello schieramento avverso: che, per il momento, si chiama Beppe Grillo.