Aida Begić, nata a Sarajevo nel 1976, è probabilmente l’esponente più importante di una nuova generazione di registi bosniaci, che stanno comparendo sulla scena dopo i due mostri sacri, Danis Tanović (quello di No man’s land) ed Emir Kusturica. I suoi due lungometraggi, Snijeg (‘Neve’, 2008) e Djeca (‘I figli’, 2011 – appena uscito Italia con il titolo Buon anno Sarajevo) le hanno già conquistato una solida fama internazionale, oltre a un buon numero di premi e riconoscimenti. La incontriamo in un caffè della capitale bosniaca, da dove non si è allontanata neppure durante la guerra.
Aida, entrambi i tuoi film sono stati ricevuti molto bene in tutto il mondo. Ti aspettavi un successo del genere?
No, per niente. Il mio film di debutto era ambientato in un piccolo villaggio della Bosnia Orientale. Io non sapevo nemmeno se la storia sarebbe stata interessante per un pubblico bosniaco, quindi il successo è stato davvero inaspettato. Tanto più che la pellicola ha subito varcato i confini della regione per diventare molto popolare anche in America e in Australia. Credo che la popolarità dei miei film dipenda dal fatto che le storie che racconto, tutto sommato, sono universali: Snijeg parla di una realtà di transizione, che potrebbe trovarsi in Bosnia come in Georgia, o in Siria; Djeca invece descrive Sarajevo, ma in realtà il tema fondamentale è la schiavitù del capitalismo. Ci si possono riconoscere più o meno tutti.
E in Italia?
Dell’Italia ho un’opinione molto positiva, e moltissimi bei ricordi. Soprattutto di Treviso. Vi ho trascorso un certo periodo perché il mio primo cortometraggio venne prodotto con l’aiuto di ‘Fabrica’, quindi di Benetton. Pochi luoghi, nel mondo, sono belli come quella cittadina. Recentemente sono stata ospite anche ai festival di Pesaro e Torino. È stata un’esperienza magnifica, anche se non ho gradito il gesto di Ken Loach (che al Festival di Torino ha scelto di non ritirare il premio per solidarietà coi lavoratori precari della cooperativa Rear addetti al Museo del Cinema). Il cinema italiano, soprattutto quello di nicchia, è portato avanti con scarsità di mezzi in un ambiente tutto sommato progressista. Ho trovato la scelta del signor Loach di un esibizionismo fin troppo facile e un po’ fuori luogo, se devo dirla tutta: fare il duro al festival di Torino, in fondo, non è così rischioso.
Per chi guarda i tuoi due lavori principali sembra che con gli anni tu abbia cambiato moltissimo il tuo stile. Sei passata da una specie di simbolismo, dal realismo magico di Snijeg al crudo realismo di Djeca. Quest’ultimo sembra quasi un film di impegno sociale, dal momento che descrive una situazione difficile come è quella delle periferie di oggi, a Sarajevo.
Djeca parla di una situazione ben precisa, che è quella che viviamo qui ogni giorno. Per molti versi oggi in Bosnia Erzegovina si vive peggio che nel 1996, o nel 1997. Allora, avevamo un Paese in rovina, ma quantomeno ci rincuorava la speranza di ricostruire la società e che un domani avremmo ricominciato la nostra vita com’era prima del conflitto. Era l’epoca di quello che chiamavamo, forse con un entusiasmo troppo eccessivo, “bosnian dream”. Se oggi mi chiedo cosa è successo, cosa ne è stato di quelle speranze, mi accorgo che non ci è rimasto più nulla. Non abbiamo più sogni e, non avendo più sogni, tendiamo a rimpiazzarli con i nostri ricordi. È pazzesco ma siamo riusciti ad idealizzare persino i giorni della guerra. Quando se ne parla, al giorno d’oggi, sembra quasi una storiella per bambini. Mi sembra ci sia qualcosa di sbagliato in tutto questo; oggi siamo tutti terribilmente soli, disperati. Sono tutte queste considerazioni ad avermi spinto a scrivere la storia che poi è diventata Djeca.
Quando parli della perdita della speranza e della capacità di sognare, ciò a cui ti riferisci ha qualcosa in comune anche con la tua decisione di riabbracciare la religione? Si dice spesso che Sarajevo fosse una città laica prima della guerra, e che abbia riscoperto la religione dopo il conflitto. Tu indossi un hijab, e del resto anche in Djeca un tema molto importante è la scelta della protagonista di seguire l’Islam e di portare il velo.
Io sono nata e cresciuta in una famiglia secolarizzata, laica in tutto e per tutto. La guerra ha avuto un’importanza fondamentale nel cambiare il mio atteggiamento nei confronti di Dio. In guerra il tempo di riflettere non manca, e spesso lo si impiega per interrogarsi sul senso della vita, e della prossimità della morte. La religione è stata una mia scelta personale, che io ho avuto il diritto di fare perché è il solo modo che ho scoperto per essere felice. E credo sia giusto parlarne, soprattutto nei miei film. Considerali come una specie di “punto di vista privilegiato”, da parte di qualcuno che proviene da quel tipo di mondo. Specialmente per quanto riguarda l’hijab. Il velo appartiene alla mia intimità, alla mia vita personale. E’ una scelta che è parte integrante di me, e che spesso viene fraintesa dai media: ci sono così poche rappresentazioni di donne velate alla televisione, è molto importante per me dimostrare agli altri che portare un velo non è incompatibile con la nostra vita quotidiana. Certo, esso non è il tema principale dei miei film. Le trame si reggerebbero benissimo in piedi da sole, anche se al posto di una donna musulmana ci fosse qualcun altro.
È difficile indossare il velo in Bosnia Erzegovina?
La maggior parte delle volte non si riesce a considerare una donna velata come una persona normale. Di solito da parte nostra ci sono due attitudini, entrambe completamente sbagliate: ci sono quelli che pensano che una donna velata sia una santa, e quelli che pensano che sia una schiava sottomessa al marito. Io voglio, soprattutto, trasmettere un messaggio di normalità. È il miglior modo, a mio parere, per contrastare i muri che gli atei per così dire ‘militanti’ stanno cercando di costruire tra i credenti e il resto della società. Non solo in Bosnia, intendiamoci. L’ateismo militante s’ingrassa dell’ipocrisia del sistema democratico. Generalmente, pensiamo che la democrazia debba essere liberale. Ma, nei fatti, essa spesso ha un’attitudine oppressiva, e ciò lo si vede particolarmente nei confronti di quei comportamenti che non vengono tollerati, nonostante non danneggino alcuno. Proibire il velo islamico, come avviene in molte società europee, è un errore. Quello che serve è un nuovo compromesso tra i credenti e la politica, che troppo spesso tende a sfruttare la religione per i propri fini. Chi ha vissuto la guerra in ex Jugoslavia lo sa fin troppo bene. Oggi niente è più sacro, ad eccezione del denaro. Forse i soldi sono l’unica cosa sacra che ci è rimasta, in questo orrore capitalista.
Sei nata a Sarajevo. È facile essere una regista bosniaca e musulmana? I tuoi film sono apprezzati in Republika Srpska (l’entità Serba della Bosnia Erzegovina) e in Serbia?
Sembrerà strano, ma per me il pubblico più difficile è quello di Sarajevo. I sarajevesi tendono ad apprezzare maggiormente ciò che proviene dall’estero, soprattutto da Belgrado o da Zagabria. Per me il momento più difficile è sempre presentare i miei lavori nel luogo in cui sono nata, perché qui le persone mi conoscono. La mia storia è la loro.
In Republika Srpska qualche difficoltà esiste, è vero. C’è una specie di censura ‘morbida’ nei miei confronti. Snijeg non venne presentata a Banja Luka, ma per Djeca è diverso, perché la protagonista (Marija Pikić) è una Serba di Trebinje che ha studiato all’accademia locale.
Del resto credo questo sia il modo migliore di tornare a vivere insieme: lavorare, cioè, gli uni accanto agli altri. Creare una continuità che possa servire poi a scambiarci i nostri punti di vista. A questo proposito devo dire che il mio migliore pubblico è probabilmente quello di Belgrado: ad ogni première nella capitale serba, l’accoglienza degli spettatori è sempre stata entusiasta. È strano, ma al tempo stesso è molto importante, per me, sapere che in Serbia così tante persone si riconoscono nel mio lavoro.
I tuoi film parlano sempre di donne, ma guardandoli si ha sempre l’impressione che il ruolo centrale sia occupato dal maschio. I personaggi principali sono sempre donne molto forti e indipendenti, ma che soffrono l’assenza di un uomo. In Djeca, la protagonista non riesce a creare un buon rapporto con il fratello…
È strano, non ho mai pensato coscientemente di realizzare un film che parlasse della situazione delle donne. È accaduto e basta, in un modo abbastanza naturale e, in un certo senso, inconscio.
Nella storia del cinema balcanico, non esiste un solo personaggio femminile decente. Le donne sono sempre ritratte come puttane o madri, nessuna via di mezzo. E io odio il modo che il nostro cinema ha di presentare il corpo femminile, è qualcosa che va ai limiti dello stupro. Il machismo del maschio balcanico, purtroppo, resta un tema tabù per la nostra società. Intendiamoci, il nostro cinema è zeppo di maschi volgari, violenti, sessisti. Ma ciò è sempre presentato come un dato di fatto, che mai viene messo in discussione. Lo si accetta, come qualcosa che è sempre stato qui e che è naturale.
Se fossi nata maschio, per me le cose sarebbero state molto più semplici. L’ho visto direttamente sulla mia pelle. Quando ero più giovane, a volte dovevo delegare il mio lavoro a qualche mio assistente maschio, altrimenti non mi avrebbero mai considerata. Ero giovane e portavo il velo. La reazione generale era, “ma che vuole questa qui? Dovrebbe rimanere in casa, pensare a suo marito o ai figli”.
La parità dei sessi può essere raggiunta? In Bosnia Erzegovina come nel resto del mondo?
Sì, a patto che si abbia il coraggio di lavorare con le donne. Il patriarcato e i suoi principi sono trasmessi dalle donne. Quando dovevo girare Snijeg ho viaggiato molto nella Bosnia rurale, ed ero sconvolta dal fatto che così tante donne difendessero un sistema che è visibilmente contro i loro interessi. C’era per esempio il caso di una vedova che aveva perso il proprio marito in guerra. Aveva appena 21 anni, ma passava la propria esistenza ad accudire… a servire i suoceri. Che, dal canto loro, la odiavano, proibendole di uscire di casa, di avere anche soltanto amiche donne. Per me è intollerabile. Io sono una specie di attivista. Per due anni ho anche contribuito a una campagna contro la violenza sulle donne: in Bosnia, la legge al riguardo è terribile, e molto spesso un uomo che picchia la moglie riesce a farla franca. Ed è pazzesco vedere che le donne stesse, quando sentono di una donna che viene picchiata, per prima cosa si dicono che forse, in fondo, se lo meritava.
Eri un’adolescente durante la guerra. In un’intervista, dicevi di essere la portavoce di un’intera generazione, quella che aveva 14 o 15 anni all’epoca. Che ricordi hai, oggi, di quei giorni?
Non credo di essere la portavoce di una generazione. Più prosaicamente, tendo a parlare di quello che conosco: il mio sogno, proprio per questo motivo, sarebbe lavorare a un film capace di raccontare la vita degli adolescenti sotto le granate, a Sarajevo. Credo che quel periodo sia stato, in un certo qual modo, incredibile. E mi piacerebbe donarne una rappresentazione.
Come adolescenti, i nostri ormoni ci hanno aiutato a far fronte a tutte le difficoltà. Intorno a noi c’era la tragedia, ma noi vivevamo ugualmente le nostre piccole passioni, i nostri amori… insomma, non tutto era buio intorno a noi. Io credo che quelli che sono stati colpiti davvero duramente dalla guerra sono stati i nostri genitori, che avevano 40 anni all’inizio del conflitto. Nello spazio di una notte persero il lavoro, e dovevano cercare di proteggere i loro figli… noi. Una volta finita la guerra, hanno cominciato a morire, tanti di loro ancora giovani. Mia madre era appena cinquantenne quando è morta, e sono sicurissima che questo sia dovuto agli anni trascorsi in guerra.
Quali sono i problemi di Sarajevo oggi?
Sarajevo oggi ha molti problemi, non ultimo quello della cultura. Negli ultimi mesi dei musei importantissimi hanno chiuso, in particolare il Museo Nazionale. Dicono che i soldi non ci sono, ma è evidente che quello che manca è la volontà politica di mandare avanti l’istituzione. La cultura è importante. Lo so io, come lo sanno tutti quelli che erano intrappolati durante l’assedio di Sarajevo. Sotto i colpi nemici, quando non c’era nulla da mangiare, senza acqua o elettricità, la cultura era una delle cose di cui sentivamo maggiormente la mancanza. La cultura, l’arte ti ricordano che sei un essere umano, non una bestia. C’era gente disposta a sfidare i cecchini pur di andare a vedere una serata improvvisata in un teatro semidistrutto. Oggi ci dicono che i soldi devono andare a creare lavori che non esistono, ma io credo che una società civile del ventunesimo secolo non dovrebbe scegliere tra pane o cultura. Vogliamo il pane E la cultura, ed è una richiesta più che legittima.
Tu eri qui durante la guerra. Cosa ne pensi dei registi stranieri che realizzano un film su questo tema? L’anno scorso ci aveva pensato la Jolie. Quest’anno c’è un film italiano ambientato durante la guerra in Bosnia Erzegovina (Venuto al mondo, di Castellitto).
La nostra storia non riguarda solo noi. È giusto che anche altri ne parlino, dopotutto, perché io non dovrei fare un film sul Nord Italia? Certo, la qualità dell’opera dipende da quella del regista. Michael Winterbottom, Bernard-Henry Lévy hanno girato eccellenti documentari a proposito della guerra a Sarajevo. Ma accanto a questi ce ne sono di pessimi, di volgari, e di commerciali. Quello che io non riesco personalmente a sopportare è il fatto che, di quando in quando, film prodotti all’estero riaccendano le solite polemiche qui, a Sarajevo. Pazienza… in fondo è un bene che si continui a parlare di questo Paese, del quale ormai sembra non ricordarsi più nessuno.
Dove al cinema:
A Milano
Cinema Palestrina
Via Palestrina, 7, Milano
16:30 18:45 21:00
A Roma
Cinema Intrastevere
Vicolo Moroni, 3/a, Roma
16:30 18:30 20:30 22:30
A Torino
Cinema Centrale Arthouse
Via Carlo Alberto, 27, Torino
16:00 20:00