Il discorso inaugurale del secondo mandato di Obama
È un’America in piena metamorfosi, quella che Barack Obama guiderà nei prossimi quattro anni. Come il suo presidente, figlio di un keniota e di una statunitense bianca, è una nazione sempre più multirazziale: alle Hawaii, nel distretto di Columbia, in California, New Mexico e Texas i bianchi non-ispanici sono già oggi una minoranza (pur rimanendo più del 63% a livello nazionale).
E come Chicago, la metropoli post-industriale del Midwest che sta a Obama come Boston stava a Kennedy e New York a Roosevelt, l’intera economia americana si sta trasformando. Fioriscono le aziende dell’hi-tech, del manifatturiero avanzato e dell’innovazione. Muoiono le vecchie industrie tradizionali. L’agonia è particolarmente intensa in città della Rust Belt quali Detroit, l’ex capitale dell’automobile roccaforte dei democratici; o Cleveland, simbolo di quell’Ohio “swing state” dove alle presidenziali Obama ha trionfato su Mitt Romney.
È un’America segnata da una crescente diseguaglianza, in primo luogo economica. Basti pensare che il reddito reale disponibile dell’1% degli americani più ricchi, in poco meno di trent’anni, si è più che quadruplicato, mentre quello del 20% più povero è cresciuto di appena il 40%. Anche se, come ha sottolineato qualche tempo fa a Linkiesta l’economista Enrico Moretti, docente a Berkeley, «la diseguaglianza chiave secondo me è tra il 30-35% dei lavoratori che hanno una laurea o un’istruzione post-laurea, e il 60-65% dei lavoratori che non hanno una laurea e che si sono fermati alla scuola superiore.» Perché in una “knowledge economy”, un’economia della conoscenza dove la massima autorità politica è un ex docente di diritto costituzionale, non si può competere sul mercato del lavoro senza un’istruzione di primo livello.
Simili trasformazioni non giovano al partito repubblicano, che dai tempi di Lyndon Johnson ha sempre più scommesso sul voto dell’elettorato bianco, dimenticando in fretta di essere il partito di Abramo Lincoln (anche se George W. Bush, nel 2004, riuscì a conquistare il 40% dei voti ispanici). D’altra parte è comprensibile che la nuova “classe creativa” di metropoli high tech come Seattle, o gli imprenditori ispanici del Sudest, siano riluttanti a votare un partito che dubita dell’evoluzionismo, e che attacca con furia gli immigrati non-autorizzati. Non a caso è ormai un luogo comune, nel dibattito pubblico a stelle e strisce, parlare di estinzione dei “repubblicani moderati”, messi all’angolo dall’estremismo dei teocon e del Tea Party.
Questo però non significa che la strada sia in discesa, per Obama. Le sfide sono immense, e iniziano a Washington. «Sul piano economico Obama deve affrontare la continua resistenza da parte dei Repubblicani, che hanno ancora il controllo della Camera dei rappresentanti, e che chiedono forti tagli alla spesa – spiega a Linkiesta Joseph E. Lowndes, professore associato di scienze politiche all’Università dell’Oregon. E in effetti anche se di recente è arrivato l’ok dei repubblicani all’innalzamento per altri tre mesi dei limiti all’indebitamento (scongiurando per ora il default della prima economia del pianeta), la partita è ancora lunga. Per arrivare a un vero compromesso con i repubblicani Obama dovrà usare tutto il suo carisma e tutta la sua abilità.
Naturalmente i primi quattro anni di presidenza hanno spazzato via, almeno in parte, l’aura straordinaria che lo circondava. Il leader diventato per tutto il mondo, a torto o ragione, un simbolo di speranza (“Hope” era la parola che corredava il celeberrimo poster stilizzato in rosso e blu) è tornato a essere quello che in realtà è sempre stato: ossia il presidente di una superpotenza con molti problemi, a cominciare dal debito pubblico gigantesco e dalla lunga guerra in Afghanistan. Una nazione, soprattutto, concentrata su se stessa, e su come uscire da una crisi made in America così grave da far fallire centinaia di banche, cancellare milioni di posti di lavoro, affondare il PIL (-3% nel 2009) e mettere fuorigioco gli alleati europei.
In questi quattro anni la presidenza Obama ha perso il suo fascino – spiega a Linkiesta Luigi Bonanate, professore emerito di relazioni internazionali presso l’università di Torino. «In un certo senso mi dispiace dirlo, ero tra coloro molti contenti della sua elezione. Ma nel primo quadriennio siamo passati da una delusione all’altra, o quasi. Specialmente in politica estera: dopo il famoso discorso del Cairo la diplomazia americana non ha brillato molto. Barack Obama è arrivato al secondo mandato da anatra zoppa. Adesso però si trova in una situazione molto diversa rispetto a quattro anni fa. Non potrà più permettersi questa sua aurea mediocritas, dovrà migliorare o peggiorare».
C’è chi attende con fiducia il nuovo mandato di Obama. Il Reagan dei democratici. O almeno così lo ha definito il settimanale Newsweek poco prima della rielezione. Ronald Reagan, tra il 1981 e il 1989 cambiò gli Stati Uniti. Ridisegnando, almeno in parte, l’architettura politica ed economica costruita da Franklin Delano Roosevelt e dai suoi successori.
Su Newsweek si poteva leggere: «Con il suo primo mandato alle spalle, Obama è pronto per essere un presidente importante quanto Reagan – affrontando il deficit, guidando la riforma dell’immigrazione, e facendo rinsavire il partito repubblicano». Per l’autore dell’articolo, Andrew Sullivan, la conferma di Obama alla presidenza, unita alla conservazione della maggioranza al Senato e a un miglioramento della situazione alla Camera, avrebbe portato a «un momento di grande trasformazione nella politica americana moderna».
Sullivan e Newsweek potrebbero avere ragione, almeno in parte. Non soltanto Obama ha sconfitto Romney, ma al Senato i democratici possono contare su 53 seggi, contro i 45 dei repubblicani. E alla Camera sono stati fatti alcuni progressi, benché la maggioranza resti repubblicana (233 seggi contro 200). Il risultato è quindi un Congresso diviso, e un partito repubblicano in crisi: da un lato pragmatici come lo speaker della Camera John Bohener, disponibili a virare (cautamente) verso il centro; dall’altro ultraconservatori come quelli del Tea Party. Insomma, una situazione per certi versi simile a quella degli anni Ottanta, ma a ruoli invertiti: allora a dibattersi nel caos era il partito democratico, e sarebbe servito un moderato del sud come Bill Clinton (pragmatico, duro con il crimine, e favorevole alla pena di morte) per tornare alla Casa bianca, nel 1993.
L’accostamento di Obama a Reagan non convince tutti, però. Secondo Lowndes, non è più possibile fare un tale paragone, «ma solo in parte a causa delle attuali condizioni politiche. Reagan aveva una chiara visione ideologica dietro il suo orientamento politico, mentre Obama è per sua stessa ammissione un pragmatico che preferisce guardare a un “Grande Compromesso” con il partito di opposizione. Obama non si è ancora occupato con forza di diversi temi importanti per la sua base liberal, quali i temi del lavoro, della povertà, della guerra, dell’immigrazione, della razza, del cambiamento climatico; e quindi è improbabile che Obama causi un riallineamento politico simile a quello causato da Reagan. Egli è visto da molti liberal come troppo schierato con Wall Street, per esempio; e anche il suo uso dei droni [per uccidere talebani e vertici di Al Qaeda] sta iniziando ad alienargli i liberal».
Inoltre rispetto ai tempi di Reagan la situazione economica, nazionale e globale, è ben più complicata. Nel 1985 il Pil statunitense cresceva di oltre il 4%, mentre quest’anno, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, non dovrebbe superare un tasso di incremento del 2%. Eppure non è detto che a pagare il conto sia Obama o il partito democratico. «Ora la posizione del presidente è più forte perché meno ricattabile da ambizioni di rielezione – spiega a Linkiesta il professor Massimo Morelli, docente di scienze politiche ed economia alla Columbia University – I repubblicani sono i primi a doversi preoccupare della salute dell’economia perché, in primo luogo, se l’economia va male la maggioranza alla Camera è quella che rischia di più; in secondo luogo anche al Senato la maggioranza dei 33 seggi da rinnovare nel 2014 sono seggi repubblicani».
D’altra parte un compromesso con i repubblicani nella sabbie mobili del Congresso non solo potrebbe consumare le energie politiche di Obama, ma richiederà grosse contropartite. A cominciare da significativi tagli alle spese. Spiega in merito Morelli: «Per qualsiasi politico di sinistra è sempre costoso, politicamente, dover tagliare delle voci di spesa, e Obama dovrà farlo. Non deve essere rieletto, ma la sua “legacy” [eredità] è in gioco, e i democratici del Senato non taglieranno le spese a cuor leggero.» Peraltro la maggior sfida a livello economico, quella della disoccupazione, «diventerà più difficile in assenza della possibilità di passare ulteriori pacchetti di stimolo».
Naturalmente il problema non è solo l’intransigenza dei repubblicani, umiliati dal recente aumento delle tasse ai ricchi. Come sottolinea a Linkiesta Lawrence M. Mead, docente di politica alla New York University, «anche i democratici sono riluttanti al compromesso, non hanno accettato l’idea di dover tagliare i programmi di welfare. Tuttavia sono chiaramente più disponibili ad arrivare a un accordo con i repubblicani».
A parere di Mead, sul debito repubblicani e democratici arriveranno alla fine «a un confuso compromesso, sufficiente a far funzionare il governo, ma per nulla adeguato a risolvere il problema del debito. Ciò che potrebbe risolvere tutto potrebbe essere un’improvvisa crisi finanziaria: se ci fosse un aumento dei tassi di interesse che paghiamo per vendere il nostro debito, o un calo della borsa, se il mondo finanziario si convincesse che il governo smetterà di funzionare, si arriverebbe a un compromesso più radicale, perché entrambi i partiti sono interessati a evitare vere crisi».
Sul tappeto ci sono poi altre due grandi sfide, in questo caso politiche, e che vanno a toccare l’essenza dell’identità americana. La prima, come sottolinea Lowndes, è il controllo delle armi da fuoco. La costituzione, come è noto, garantisce con il secondo emendamento il diritto di possedere armi. Tuttavia è difficile non vedere nella straordinaria facilità con cui si può entrare in possesso di armi da fuoco in America una delle cause di stragi come quella, recentissima, a Newtown. «Qui è improbabile che Obama emerga vittorioso, ma è riuscito comunque a far avanzare il dibattito nazionale in materia rispondendo a un sentimento popolare».
L’altra grande sfida è quella inerente l’immigrazione. Perché se è vero che, con l’eccezione dei nativi, oltre il 98% degli americani proviene da altri continenti, è anche vero che sono molti gli elettori, in larga parte repubblicani, a chiedere leggi sempre più dure contro gli immigrati non-autorizzati. Che sono, secondo il Pew Hispanic Center, poco più di 11 milioni. «I repubblicani si stanno muovendo a sinistra in quest’ambito, principalmente per riparare agli effetti dannosi causati dalle loro prese di posizione anti-immigrati sul voto latino nel 2012, e per ammorbidire la loro immagine che si è indurita a causa della questione sul controllo delle armi – dice Lowndes dall’Oregon – Obama potrebbe avere la capacità di andare avanti qui. I presidenti al secondo mandato hanno circa due anni per promuovere la loro agenda. Dopodiché manca loro la forza e l’influenza sia al Congresso sia nel partito».
A parere di Mead, un ambito dove Obama potrebbe brillare è la politica estera. «Lì avrebbe la possibilità di procedere più rapidamente. – dice – Potrebbe agire più autonomamente, senza attendere l’approvazione del Congresso. Indirizzerà i suoi sforzi in quella direzione, perché può ottenere più risultati…».
Secondo Bonanate, «la principale sfida che Obama, al pari di tutti noi, dovrà affrontare è il grande processo, ormai in atto, di trasformazione della società internazionale. Una parte del mondo non può più continuare a essere assoggettata al privilegio e al benessere di pochi fortunati. America ed Europa occidentale credevano di essere i possessori delle chiavi della prosperità mondiale, ma ora non è più così.» E in effetti con un’Asia sempre più potente («immagini la stretta che Obama sente al suo cuore finanziario di presidente quando pensa al debito pubblico in mano alla Cina») e un’Africa in crescita, non si può non concordare con il professore su una cosa: gli equilibri di potere stanno cambiando, e l’America dovrà in qualche modo fare i conti con questa trasformazione ormai irreversibile.
«La mia preoccupazione principale è che Obama oggi sia poco interessato a muoversi sul piano internazionale. – precisa Bonanate, aggiungendo – In politica internazionale il suo unico successo è stato l’omicidio Bin Laden, che gli ha fatto fare una gran bella figura a livello interno… tuttavia l’immagine americana all’estero non ha certo tratto giovamento da questa vicenda cinica e macabra. Di solito quando un governo ha difficoltà all’interno cerca di esportarle, ma nel caso di Obama è esattamente il contrario: il presidente avrebbe bisogno di non avere problemi internazionali per occuparsi perbene di politica interna. Tuttavia non lo può fare, a meno che gli Stati Uniti non escano di scena».
Per avere qualche indizio in più sulla politica estera americana nei prossimi quattro anni può essere utile analizzare le scelte di Obama per il suo nuovo gabinetto. Come segretario di Stato, ossia ministro degli esteri, vorrebbe l’ex candidato democratico alle presidenziali del 2004 John Kerry, che in questi anni lo ha sempre sostenuto. E come segretario della difesa Charles Hagel, repubblicano moderato. Un team di gente leale ma pragmatica. Utile per affrontare le grandi sfide all’orizzonte: l’Afghanistan; la Siria dove ancora infuria la guerra civile; il nuovo fronte nordafricano; e soprattutto, le tensioni tra Israele e Iran.