Post SilvioA sei giorni dal voto, la solita nostalgia del futuro

A sei giorni dal voto, la solita nostalgia del futuro

La novità in politica è un comico degli Anni ‘80. Per dirla in una frase, questa è la fotografia più sintetica di questa campagna elettorale. Il paese, a una settimana dal voto, non ha le idee più chiare su cosa sia stata e sia “la crisi”; non sa di più né meglio in che modo i “diversi schieramenti” affronterebbero “la crisi”; e se gli interessa ancora la politica italiana, sa cosa aspettarsi da Monti, Bersani e Berlusconi. Poi le pastoie parlamentari, i trucchetti di quel furbone di Casini, le frasi di un quasi vecchio ieratico D’Alema fuori dal parlamento, le dichiarazioni di Fini, Monti che torna il grigio tecnico che tanto ci piaceva, magari Veltroni sindaco di Roma e alla fine di un incollatura il capo leghista Maroni che porta un partito-larva in cima al Pirellone, piuttosto che risultare sconfitto da questa sfinente rincorsa della “società civile” (di Milano) verso un potere.

È naturale, in un contesto del genere, che la tentazione di mandare tutto a quel paese a molti venga, e Vaffanculo è parola fondativa nel percorso politico di Grillo e del suo movimento. Non è solo quello, è evidente, ma quello c’è e continua ad animare un percorso profondo di questo paese. La protesta di grandi sacche di società, di dimenticati da gruppi organizzati, élite, lobby e ideologie, è da sempre un fiume che percorre la società e la politica italiana. Dopo questi venti anni buttati, quel fiume sembra più grosso, impetuoso e organizzato che mai. Governa in una piccola capitale simbolica della provincia italiana, quella Parma che fu di Calisto Tanzi, e dovunque vada Beppe Grillo riempie la piazza. Piano piano, gli organi di informazione hanno dovuto renderne conto e prenderne atto, ma pudicamente, quasi per esorcizzare la paura che Grillo mette a partiti dal consenso sempre friabile. Beppe Grillo non andrà a Palazzo Chigi, ma i suoi candidati invaderanno il parlamento italiano e se l’onda dovesse salire sensibilmente sopra il 20%, da queste parti non ci stupiremmo proprio. Naturalmente, i grillini a Roma non avranno alcuna leva di governo, e di quello si occuperanno i partitoni e i partitini. Che anzi, hanno già iniziato a preparare tabelle dettagliatissime di quanti sottosegretari, quanti ministri (con tanto di nomi, ovviamente) in caso di questo o quel risultato. Il vecchio resiste, del resto, quando il nuovo non riesce a imporsi nel quadro delle regole date.

Quello di Beppe Grillo, in fondo, non è neppure un tentativo di vincere le elezioni, e in cuor suo probabilmente avrebbe sperato anche in qualche argine in più, da parte dei partiti e del sistema, alla sua ascesa. Col suo movimento di protesta e proposta, di leaderismo e di partecipazioni, di solitudini che si scelgono in una comunità di persone e intenti con un capo, rischia invece di trovarsi a dover guidare una “struttura” da secondo partito del paese. Del resto, i cambiamenti evolutivi delle democrazie avanzate, storicamente, avvengono dentro i partiti, dentro un sistema di rappresentanza di lungo periodo, tra diverse idee e modelli di sviluppo e di rappresentanza di interessi. Questo, in fondo, è stato il tentativo di Matteo Renzi, e la vera dimensione dell’occasione persa, risulterà plasticamente raffigurabile. Ma anche adesso, a sei giorni dall’apertura delle urne e da questo voto immerso nella recessione, si vede bene come il tentativo – questo sì, veramente politico – di Matteo Renzi avrebbe potuto, andando a buon fine, cambiare il destino del paese in questi anni. Monti avrebbe probabilmente resistito alle lusinghe di chi lo ha sospinto e convinto a scendere in campo, anche perché esse sarebbero state più tenui, trovando tanto moderatismo conservatore una sua compensazione (o un’illusione di compensazione, che è poi lo stesso) nella parte “destra” del blocco di Renzi. Il Pd avrebbe dovuto, volente o nolente, affrontare presto alcuni nodi strutturali che sono altrettanti generatori di ritardo culturale e politico: il rapporto con il sindacato (quale sindacato? In rappresentanza di chi?); e poi un sistema interno di formazione e ricambio della classe dirigente che resta gravemente carente, nonostante il vero sforzo di rigenerazione e partecipazione imposto peraltro proprio dalle frustate di Renzi. Più in generale, se fosse stato Renzi il candidato premier, il Pd avrebbe potuto e dovuto confrontarsi con l’ambizione naturale di ogni grande partito progressista europeo, quella dell’egemonia o, meglio, dell’autosufficienza. Rischiando di fallire l’obiettivo nelle urne, certo, o di tradire le aspettative dopo, una volta al governo. Ma almeno restituendo alla politica e ai partiti quella dimensione naturale, di cerniera di trasmissione tra il voto e la formazione di un governo, che hanno in ogni paese dell’occidente.

E invece, e invece, la Terza Repubblica sembra ripartire dalla Prima nel metodo, e dalla Seconda nelle facce di riferimento. Il paese è più vecchio, non ha investito nella propria rinascita, ha visto la grande industria sparire un pezzo alla volta mentre il mito delle terre produttive, di quel modello Nordest che doveva espandersi a macchia d’olio, ha mostrato la corda che emerge quando il modello di sviluppo è insostenibile e volontarismo, ambizione e volontà di lavorare non valgono abbastanza se non si ha forza di innovare davvero. E l’Italia è lì, anzi è qui, coi suoi bollettini di guerra della disoccupazione e della costante decrescita economica, che ormai arrivano ciclici e diventano quasi un ronzìo che non spaventa e non colpisce più; con una ricetta per ripartire che non può prescindere dalla affidabilità di Bersani e di Monti (e sarebbe stato bello se il Premir avesse almeno tenuto vicino un piccolo movimento sano e intelligente come Fermare il Declino), ma che certo di loro non può accontentarsi; con un paese in cui, ancora troppo spesso, chi davvero vuole provare a cambiare, a rischiare, a fare insomma impresa generando cambiamento trova ostacoli noti e inattesi nel sistema pubblico e nelle sue burocrazie, come in quello privato e nelle sue oligarchie.

Eppure, se anche il quadro sembra sconfortante, se anche questa campagna elettorale non può lasciarci che il presagio di uno strano rinnovo in cui niente cambi, non è lecito – per cittadini di buona volontà – lasciarsi abbattere. E l’ultima settimana di campagna elettorale, al di là degli ultimi dubbi, è il tempo per capire che, nonostante le occasioni perse, la prossima legislatura, i prossimi anni, saranno davvero decisivi per il nostro paese. Di più, saranno fatali. A ciascuno di noi, il compito di non dimenticare che il destino di ogni comunità lo possono cambiare, davvero, solo i suoi membri.