Ma Azienda Italia non è peggio degli altri paesi

Ma Azienda Italia non è peggio degli altri paesi

Tra Silvio Berlusconi che “sdogana” la tangente perchè “così fan tutti” nella giungla delle commesse internazionali e il protagonismo mediatico-giudiziario di certe Procure che intervengono ciecamente senza distinguere ipotesi di reato e ragion di stato, ci sono in mezzo regole consolidate, una giurisprudenza pragmatica e le convenzioni internazionali anti-corruzione. Come punire chi fa girare “stecche” per comprare appalti o contratti all’estero senza danneggiare gli interessi nazionali perseguiti da aziende strategiche nel campo della difesa, dell’energia e delle tecnologie sensibili?

È questa la domanda che attraversa in filigrana la sventagliata di scandali e arresti e che hanno colpito a vario titolo grandi gruppi italiani come Finmeccanica e Saipem-Eni. Se ci poniamo in quest’ottica, senza concedere nulla al cinismo delle guerre di mercato o al vecchio adagio “mal comune mezzo gaudio”, si vedrà che le poche grandi aziende italiane rimaste in campo, nonostante le apparenze, non siedono in cima alla classifica dei paesi corruttori. Il fenomeno è diffuso in tutto il mondo e riguarda praticamente tutte le multinazionali operative nei mercati sensibili.

La differenza sta però nelle regole che i sistemi paesi si danno, nella governance interna dei gruppi e nella cultura diffusa delle singole nazioni.
Per capirlo serve fare un passo indietro. La lotta alla corruzione internazionale nasce di fatto nel 1977 negli Usa, con l’introduzione del cosiddetto Fcpa (Foreign Corruption Pratices Act), che proibisce la corruzione di funzionari pubblici stranieri. Undici anni dopo, per evitare che le loro società attive all’estero fossero svantaggiate rispetto a quelle di paesi concorrenti, Washington avvia negoziati in sede Ocse per spingere all’adozione di normative simili da parte dei paesi membri. Nel dicembre 1997 si arriva così alla firma della Convenzione Ocse sulla “lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali”, ad oggi ratificata dai 34 paesi aderenti più Argentina, Brasile, Bulgaria, Russia e Sudafrica. Di conseguenza ciascuna di queste nazioni ha via via adottato una propria legislazione interna ispirata alla Convenzione, che proibisce e sanziona la corruzione di pubblici ufficiali stranieri.

Nel caso dell’Italia la ratifica avviene con la legge 300 del 29 settembre 2000, che introduce in ordinamento l’art. 322-bis del codice penale appunto a disciplina del reato di “corruzione internazionale”. L’anno successivo, con il Decreto legislativo 231, il reato viene esteso anche alla “Responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”. In sostanza la corruzione internazionale da parte di esponenti di una società può comportare la responsabilità della stessa, con tutte le conseguenze del caso tra cui l’applicazione di “sanzioni amministrative pecuniarie”, la “confisca del profitto” conseguito dalla società attraverso la condotta illecita di suoi esponenti e l’applicazione di cosiddette “sanzioni interdittive” che possono consistere nella “interdizione”, per un periodo fino a due anni, “dall’esercizio dell’attività” nel cui ambito è stato commesso l’illecito. Di più. Queste “sanzioni interdittive” possono essere comminate alla società anche in via cautelare, quando le indagini sono ancora in corso.

È qui che si concentra l’anomalia italiana, il cappio giudiziario che si fa svantaggio competitivo: “questo tipo di sanzione può infatti danneggiare gravemente il business di una società strategica, impedendole di rispettare impegni assunti con Stati esteri e con clienti/partners internazionali”, spiega l’avvocato Alessandro Musella, socio dello studio legale Bonelli Erede Pappalardo, esperto di anti-corruzione internazionale. “La stessa misura sostitutiva delle sanzioni interdittive prevista nel decreto 231, cioè la possibilità di nominare un commissario, non è la garanzia migliore per evitare danni, anzi. Anche con il commissariamento la società rischia di perdere contratti o concessioni da stati esteri, con danni irreparabili non solo per la società, ma anche per lo stato e i cittadini nel cui interesse la società opera.” Immaginiamo se, a causa di una qualche “misura interdittiva” o di “commissariamento”, un gruppo come Eni dovesse perdere lo sfruttamento di un importante giacimento, l’interesse nazionale all’approvvigionamento energetico sarebbe gravemente compromesso.

E chi pensa che questi argomenti siano solamente l’anticamera di una furba e cinica accettazione della logica delle tangenti necessarie a lavorare nel mondo, dovrebbe guardare alle regole vigenti in molti paesi Ocse nostri competitor, dove questo tipo di sanzioni “interdittive” non sono nemmeno contemplate nelle rispettive legislazioni anti-corruzione. Per capirlo bisogna tornare un’altra volta agli Stati Uniti e poi fare un giro nel resto d’Europa. “La ricca casistica di sanzioni comminate dal Dipartimento di Giustizia americano dimostra infatti una netta propensione a raggiungere veri e propri accordi (“Deferred Prosecution Agreements”) coi quali la società coinvolta in un reato di corruzione internazionale, di fronte all’impegno della magistratura a non intraprendere un procedimento penale, paga un risarcimento economico impegnandosi nel contempo ad adottare e attuare in modo efficace un ‘compliance programs’ anti-corruzione, ossia un sistema di procedure e di controlli finalizzato ad evitare il ripetersi del reato”, prosegue Musella. Dal 1978 al 2012, sono stati più di 110 gli accordi siglati da colossi di mezzo mondo con la giustizia americana. In pratica nella serie storica ci sono tantissime multinazionali top come Allianz, Oracle, Pfizer, Siemens, Johnson & Johnson, Abb, Technip, Alcatel Lucent, Daimler Chrysler, Volvo, Chevron, Ibm, Dow Chemical, Ge. Comprese le italiane Tenaris, Fiat, Eni e addirittura Montedison.

“In questo modo – continua Musella – l’azienda in questione, da un lato, paga adeguate sanzioni economiche e, dall’altro, attraverso l’adozione di ‘compliance program’ anti-corruzione, attua una politica di prevenzione che costituisce un’efficace forma di collaborazione con lo stato nella prevenzione del ripetersi di condotte corruttive. Nello stesso tempo, si evita di causare alla società, allo stato e ai suoi cittadini, danni gravi e irreparabili.” Soprattutto, grazie ad una estensione strategica della propria legislazione (basta avere una subsidiary in loco, essere quotati a Wall Street o anche solo usare un conto bancario o un mezzo di comunicazione americani per incapparvi), gli Usa “guadagnano” risarcimenti anche su aziende straniere non immediatamente coinvolte su commesse o contratti relativi a corporation americane. In questo modo, tra l’altro, tutelano e avvantaggiano le proprie società rispetto a quelle dei loro concorrenti internazionali. Un tipico caso di idealismo delle regole sposato ad un massiccio uso di lobbysmo pragmatico e strategico-commerciale. Paradigmatico è il caso della tedesca Siemens, che ha dovuto sborsare alla Giustizia americana 800 milioni di dollari per vicende di corruzione in vari paesi del mondo. Oppure la consultazione della lista delle aziende attualmente sotto indagine Sec, per supposti casi di Fcpa: sono ben 88 tra cui molte tra le principali corporation americane e internazionali.

Non solo. Gli Usa si spingono oltre, “graziando” la condotta di soggetti che abbiano comunque agito per interesse nazionale: un importante precedente è quello che ha coinvolto James Giffen, affascinante figura di petroliere-banchiere americano, la cui vicenda è narrata in un libro scritto da un ex agente della Cia (Robert Baer, “See no evil”) da cui è stato tratto il film Syriana di George Clooney. Giffen, accusato di aver pagato tangenti per 80 milioni di dollari al Presidente del Kazakhstan Nursultan Nazarbayev per lo sfruttamento di importanti giacimenti petroliferi, è stato recentemente assolto dai giudici del suo paese proprio con la motivazione che aveva agito “nell’interesse strategico degli Stati Uniti”.

Nel resto d’Europa, non c’è nemmeno questo mix di idealismo e lobbysmo degli affari (in Usa la normativa sui whistle-blower offre tra le altre cose una ricompensa dal 10 al 30% dell’eventuale sanzione inflitta ai responsabili per chi denuncia episodi di corruzione) ma solo pragmatismo e interessi nazionali. I colossi inglesi e francesi godono del pressochè tacito assenso del sistema, che chiude gli occhi davanti alla ragion di stato, costi quel che costi in termini di trasparenza e di pratiche poco ortodosse nei quadranti più turbolenti del mondo. “L’episodio più clamoroso – ha ricordato Claudio Gatti ieri sul Sole 24 Ore – si è verificato nel dicembre 2006 quando il governo di Tony Blair ha ordinato al Serious Fraud Office, la forza di polizia deputata alla lotta alla corruzione, di interrompere la sua inchiesta su una serie di contratti di vendita di armi al governo saudita da parte della Bae System, il gigante della difesa nazionale.” Motivo: l’inchiesta rischiava di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale perchè i sauditi avevano minacciato di sospendere la cooperazione nel campo della lotta al terrorismo islamico. “In realtà quei contratti avevano un valore che avrebbe potuto superare gli 80 miliardi di sterline.”

Quanto alla Francia, i report dell’Ocse denunciano da tempo la scarsa collaborazione in termini di corruzione internazionale. Parigi “dovrebbe intensificare i suoi sforzi per combattere la corruzione di pubblici ufficiali stranieri. Negli ultimi 12 anni ci sono state soltanto cinque condanne…”, si legge nel rapporto dell’ottobre 2012. In particolare gli ispettori Ocse sono preoccupati “per la timida risposta delle autorità francesi di fronte a casi di corruzione e perchè le sanzioni imposte sono poco dissuasive.” Il riferimento è ad indagini che hanno coinvolto fuori dalla Francia i colossi Alstom e Thales. Tutt’al più si puniscono singole persone o intermediari senza arrivare mai a toccare gli interessi strategici dei campioni nazionali all’estero.

E in Italia? In Italia vige la solita confusione, dove si sommano giustizialismo, malcostume, ipocrisie, rapporti incestuosi politica-affari, corruzione e moralismo d’accatto. “Il principio di obbligatorietà dell’azione penale impedisce la fattibilità di questi accordi all’americana, ma ciò non significa che vicende di corruzione internazionale relative a società strategiche non possano essere trattate con buon senso e attenzione all’interesse nazionale”, spiega ancora Musella. Ad esempio “i pubblici ministeri potrebbero evitare di chiedere l’applicazione di dannosissime ‘sanzioni interdittive’ o del ‘commissariamento’ quando la società coinvolta abbia adottato ed efficacemente attuato ‘compliance program’ anti-corruzione. Non solo nessuna norma impone di chiedere tali sanzioni (soprattutto in via cautelare ad indagini ancora in corso), ma vi sono perfino seri dubbi giuridici sul fatto che siano applicabili per il reato di corruzione internazionale.” In proposito, per ben due volte i giudici del Tribunale di Milano hanno ribadito che, in base al Decreto 231, non è possibile imporre questo tipo di sanzioni ad una società per reati di corruzione internazionale (così il Gip di Milano Panasiti in un’ordinanza del 17 novembre 2009, confermata dal Tribunale del riesame). In senso parzialmente contrario si è poi pronunciata nel 2010 la Cassazione la quale, però, – pur affermando “l’astratta possibilità di applicare” le “sanzioni interdittive” previste dal Decreto 231 anche a reati di corruzione internazionale – ha rimarcato l’oggettiva difficoltà di “applicabilità in concreto di tali sanzioni” in relazione ai “rapporti con gli Stati esteri”.

Insomma parliamo di questioni complesse, molto dibattute in giurisprudenza. Quel che serve è trovare una via intelligente che persegua correttamente la corruzione internazionale senza pregiudicare l’interesse nazionale. “Una soluzione potrebbe essere quelli di evitare di comminare contro società strategiche delle sanzioni (come l’interdizione e il commissariamento) che, da un lato, possono causare danni gravissimi e irreparabili e, dall’altro lato, sono perfino di dubbia applicabilità in base alla normativa vigente”, conclude Musella. “Questo, naturalmente, a condizione che la società dimostri di avere preso sul serio il problema e di avere adottato e attuato un ‘compliance program’ anti -corruzione.”

Ecco il modo giusto per evitare le banalizzazioni ciniche alla Berlusconi e, all’opposto, gli strepiti giustizialisti che fanno solo danno ai legittimi interessi del paese. Come dimostra l’elenco delle indagini Sec, Corporate Italia non è certo peggio degli altri paesi. Siamo solo meno abituati a far funzionare le regole e a separare i piani. Una democrazia matura deve saper fare questi discorsi con trasparenza. Che poi è la traduzione della formula un po’ democristiana usata ieri mattina dal premier Mario Monti, interpellato sulla vicenda Finmeccanica: i colossi italici “possono comportarsi secondo gli standard in uso nei paesi esteri”, ma evitino “tangenti in patria…” Questo, sì, purtroppo, un vizio italico da bandire…
 

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