È comprensibile che la crisi europea sia rimasta sullo sfondo della discussione seguita alle elezioni, perché la nostra crisi politica pone problemi urgenti e legati all’asimmetrica composizione delle due Camere. Ma la crisi italiana è grave anche per via dei suoi possibili effetti sulla crisi europea, il cui equilibrio resta pericolosamente precario, e senza risolvere questa anche la prima resterà aperta.
Intendiamoci: è evidente che nella presente situazione politiche fiscali di austerità abbiano effetti recessivi, come in Ottobre ha riconosciuto anche il Fondo Monetario Internazionale. Il punto cruciale è sviluppato da uno studio pubblicato due mesi fa, che osserva come in questi anni in Europa il moltiplicatore fiscale – ossia quanti euri di prodotto corrispondono a un euro di spesa pubblica – sia stato ben superiore all’unità (circa 1.5), e pari a tre volte quanto si immaginava sarebbe stato (0.5). Ecco, in sintesi, la principale ragione per cui il rapporto tra debito e prodotto non scende nonostante la contrazione della spesa: alcuni economisti – Krugman e de Grauwe, ad esempio – lo dicono da quando la direzione della politica economica europea iniziò a virare verso il consolidamento fiscale. Ed è altrettanto chiaro che un approccio più attento allo stimolo alla domanda sia più appropriato alle condizioni delle economie europee. Perché allora Bruxelles e Berlino non hanno cambiato interpretazione e linea, come ha fatto il Fondo monetario?
La posizione di Berlino sicuramente risponde a ragioni di politica interna e all’osservazione che l’economia tedesca – sinora almeno – ne ha tratto importanti benefici, sul costo del capitale e la competitività delle sue esportazioni. Ma io credo ci sia dell’altro, ossia la convinzione che questa crisi sia l’occasione per completare la costruzione iniziata con l’euro. Creare un’unione monetaria senza appoggiarla a un’unione politica è equivalso a muovere un passo senza appoggiare a terra il piede avanzato. Il piede non può restare a lungo a mezz’aria: o si posa avanti, sull’unione politica, o torna indietro, sulle monete nazionali. I padri dell’euro ne erano consapevoli, e fidavano nel fatto che quello squilibrio avrebbe esso stesso generato la spinta per la sua soluzione. Ma la carenza di leadership e l’artificiale elevato equilibrio sul quale l’eurozona s’è assestata dopo la creazione dell’euro hanno fatto sì che non si potesse, o volesse, convincere gli europei a concordare l’unione politica. Quindi ora si vuole usare la crisi per spingerli a farlo: in questa prospettiva, le politiche di austerità servono a tenere la pressione alta, allo scopo di costringere i governi nazionali ad accettare ulteriori cessioni di sovranità (fiscal compact, unione bancaria) per evitare l’esplosione della crisi del debito sovrano.
Naturalmente possono essere fatte molte critiche a questa tattica, molto rischiosa anche nella prospettiva di chi probabilmente l’ha formulata: perché disoccupazione e populismo rischiano di superare i livelli di guardia. Ma credo che l’obbiettivo ultimo – un’unione politica di natura federale, o un passo decisivo verso di essa – corrisponda all’interesse sia degli europei sia degli italiani, e che il governo tedesco lo persegua seriamente: penso alla proposta di sottoporre i bilanci nazionali a un veto europeo, la quale di fatto implica l’unione politica, e alla proposta di eleggere direttamente il presidente della Commissione, che la prefigura. E quindi penso che su questo obbiettivo si possa trovare un accordo anche con coloro che sostengono l’austerità fiscale per ragioni d’interesse nazionale o di convinzione politica.
Se questo è vero, la prima conseguenza è che uno dei punti necessari del prossimo governo (ossia, per ora, quello che Bersani ha disegnato) sia lavorare per l’unione politica. Perché l’Italia è un partecipante necessario di quel negoziato, e perché essa può svolgere un fondamentale ruolo di mediazione e coordinamento tra le posizioni tedesca e francese, la cui distanza – dato il tradizionale sovranismo francese, e l’intransigenza tedesca sul consolidamento fiscale – è l’ostacolo maggiore sia per quel negoziato, sia per il tentativo di dare una soluzione stabile alla crisi dell’eurozona. Ma perchè l’Italia svolga quel ruolo occorre che il prossimo governo abbia un esplicito mandato, e se lo faccia dare dal parlamento.
La seconda conseguenza è che se usciremo dalla recessione europea solamente grazie a una correzione della politica economica, e senza fare allo stesso tempo un decisivo passo avanti verso l’unione politica, avremo sprecato una buona occasione, e buttato alle ortiche i tanti sacrifici provocati dal fatto che il moltiplicatore era il triplo di quanto ci si attendeva. Sacrifici in parte insensati, beninteso, perché la tattica che ho descritto sopra è criticabile. Ma senza avanzare sull’unione politica quei sacrifici non sarebbero serviti a null’altro che a far capire – con quattro anni di ritardo – che l’austerità è recessiva. Troppo poco, secondo me: bisogna almeno tentare di cavare da queste sofferenze sociali qualcosa di più, ossia l’unione politica. Anche perché senza di questo l’architettura dell’unione monetaria rimarrebbe fragile, e la crisi pronta a tornare al prossimo shock.
Quindi, i compiti del prossimi governo devono includere due dossier europei: mutare la politica economica, per arrestare la recessione, e spingere con forza verso l’unione politica, per assicurare la democrazia e la prosperità degli europei. Il secondo compito è ben più importante del primo. E dopo cinque anni di governi che non hanno lavorato al futuro dell’Europa – perché un premier non ci pensava e l’altro non aveva mandato politico – né l’Italia né l’Europa possono permettersi un altro esecutivo che si presenti ai suoi interlocutori europei senza un mandato forte per negoziare il futuro del continente.