La lunga lista di pretendenti che lacera la Siria

Qatar, Arabia Saudita, Russia e Iran ma anche Francia e Gran Bretagna

Uno Stato fallito nel cuore del Medio Oriente. Tra Turchia, Giordania, Iraq, Libano e Israele. Questo potrebbe diventare la Siria, la Somalia del Mediterraneo. A dicembre Lakhdar Brahimi, rappresentante speciale dell’Onu e della Lega Araba per la Siria, metteva in guardia la comunità internazionale: o si giunge a una soluzione politica del conflitto, o si arriverà al collasso totale dello Stato siriano. A una “somalizzazione” della Repubblica di Al Assad, ossia alla frammentazione del territorio in feudi controllati da diversi signori della guerra. Un timore espresso pochi giorni prima anche da Mokhtar Lamani, rappresentante dell’Onu e della Lega Araba a Damasco, in un’intervista alla Bbc.

I diplomatici non sono gli unici a temere che la Siria diventi un nuovo Afghanistan. Anche le forze in campo riconoscono il problema. A gennaio il Washington Post citava un rapporto stilato da fonti siriane in collaborazione con l’Esercito siriano libero (Fsa) e destinato al Dipartimento di Stato americano. Secondo il documento, nel territorio settentrionale compreso fra Aleppo e il confine con la Turchia, l’esercito di Al Assad sarebbe quasi completamente scomparso a favore di gruppi disorganizzati di combattenti, commercianti di armi e signori della guerra.

E si sa, costoro non vengono solo dalla Siria ma sono anche stranieri. Gruppi armati e foraggiati dagli stati del Golfo e, in particolare, da Qatar e Arabia Saudita. Il regime siriano, invece, riceve aiuti (sotto forma di armi o di supporto diplomatico) dai suoi due alleati tradizionali: Iran e Russia. Perché, sin dall’inizio delle proteste due anni fa, gli affari siriani non sono mai stati un’esclusiva di Damasco.

Mosca, ad esempio, ha avuto un ruolo sin dall’inizio, ponendo il veto alle risoluzioni contro il regime di Al Assad proposte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. D’altronde non è difficile trovare le ragioni dell’interesse del Cremlino negli affari siriani: Tartus, città costiera siriana, ospita l’unica base navale russa sul Mediterraneo, nonché le stazioni radar che sorvegliano i movimenti della Nato in Turchia. Inoltre la Siria, terra di transito a cavallo tra Europa e Medio Oriente, è strategica nella battaglia per le forniture energetiche in corso fra russi, arabi e iraniani.

I Paesi arabi del Golfo, da parte loro, «sono stati presenti in Siria fin dall’inizio perché il loro obiettivo, la leadership sull’intero mondo arabo, sarà facilitato dalla caduta di Damasco. – spiega a Linkiesta Massimiliano Trentin, ricercatore in Storia del Medio oriente del dipartimento di Scienze e politiche e sociali dell’Università di Bologna – Da qui il loro sostegno sempre più aperto all’opzione militare, e il loro invio di armi ai ribelli, qualsiasi essi siano»

Proprio l’appoggio indiscriminato a gruppi armati sunniti da parte di Qatar e Arabia Saudita starebbe da tempo preoccupando anche gli Stati Uniti: agli americani i rapporti sulla presenza di numerosi gruppuscoli di combattenti stranieri, armati fino ai denti e apertamente jihadisti, non piacciono affatto.

E in questo senso, aggiunge Edward Gnehm, professore di Affari del Golfo e della Penisola Araba della George Washington university nonché direttore del Middle east policy forum, «la preoccupazione degli Stati Uniti è che certi tipi di armi possano finire nelle mani di gruppi che costituiscono una minaccia, come Jabhat Al Nusra. Per questo credo che se ci fosse qualche tipo di discussione in corso fra Washington e Doha sarebbe solo per avvisare il Qatar di non fornire tipi di armamenti che, se cadessero nelle mani sbagliate, potrebbero essere usati non solo contro di noi ma anche contro di loro, i Paesi del Golfo».

L’Arabia Saudita, per esempio, avrebbe recentemente finanziato l’acquisto di una grande quantità di armi leggere in Croazia da far arrivare ai ribelli in Siria. Ribelli che, nonostante gli aiuti dall’esterno, rimangono molto mal equipaggiati rispetto alle forze lealiste, chiuse a testuggine intorno al presidente Al Assad. Ed ecco una delle ragioni per le quali l’opposizione armata non è ancora riuscita ad avere la meglio, dopo due anni di combattimenti, 70.000 morti e due milioni e mezzo di profughi rifugiatisi nei Paesi vicini: Giordania, Libano, Iraq. Turchia, Egitto e altri Stati del Nord Africa.

Linkiesta ha domandato a Gnehm, che è anche l’ex ambasciatore Usa in Giordania e Kuwait, qual è la ragione dell’interventismo in Siria dei Paesi del Golfo. «La ragione principale è l’Iran. La maggior parte dei Paesi del Golfo vede che il governo iraniano sta cercando di esercitare la propria egemonia nella regione. Quindi interpreta il legame fra Damasco e Teheran come un pericolo e vuole che tale legame si rompa». Il ruolo centrale dell’Iran nel conflitto siriano è confermato anche da Trentin: «L’Iran è il vero premio in ballo nella partita che si sta giocando, quella della normalizzazione dell’intera area mediorientale».

Un premio da vincere a ogni costo. Anche quello, sembrerebbe, di destabilizzare l’intera area, già di per sé una polveriera. Il rischio di contagio in Libano, ad esempio, è elevato secondo Trentin. «I confini dei Paesi di questa regione sono stati disegnati sulla carta in maniera totalmente arbitraria (dalle ex potenze coloniali ndr). Intere famiglie e comunità si trovano al di qua e al di là di questi confini di carta. Il rischio di internazionalizzazione del conflitto c’è, ed è reale».

Le prime avvisaglie potrebbero essere già arrivate. Proprio lunedì l’esercito libanese informava che gli aerei dell’aviazione siriana avevano lanciato quattro missili sulla città di Arsal, vicina al confine con la Siria, un’informazione poi confermata dal Dipartimento di Stato americano. La città, secondo il ministero degli Esteri siriano, sarebbe usata da molti combattenti dell’opposizione come passaggio per entrare in Siria.

Ancora, risale allo scorso febbraio l’ultimatum che l’Esercito Siriano Libero ha rivolto a Hezbollah, minacciando di attaccarlo in Libano se non avesse smesso di combattere i ribelli in Siria. Imad Salamey, professore associato di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali dell’Università Americana Libanese, è tuttavia cauto sulla possibilità che Hezbollah si lanci in uno scontro aperto con i ribelli siriani.

«È possibile, ma finora non è ancora successo. Si tratta solo di scaramucce sul confine siriano. Credo che entrambe le parti si rendano conto che un confronto aperto danneggerebbe entrambe e avrebbe conseguenze devastanti. – spiega a Linkiesta – Non credo che Hezbollah pensi che un conflitto con l’opposizione siriana rafforzerebbe il governo di Al Assad, né che indebolirebbe i ribelli. Al contrario Hezbollah sa che, qualora diventasse un attore negli affari interni di un Paese confinante, la sua popolarità in Libano verrebbe danneggiata, così come il suo ruolo di gruppo di resistenza contro Israele. E poi l’opposizione siriana ha già abbastanza di che preoccuparsi senza farsi trascinare anche in un confronto aperto con Hezbollah».

L’eventuale caduta di Al Assad avrebbe indubbiamente conseguenze dirette sia sull’Iran che su Hezbollah. Proprio per questo entrambi stanno cercando di tessere relazioni con altri attori in campo. «Come la Russia, anche l’Iran ha cercato di aprire molti canali di contatto con le formazioni dell’opposizione, anche armata. – spiega Trentin – Teheran sa che il regime siriano non sarà più quello di prima, per cui è necessario diversificare le proprie relazioni. Ovviamente è difficile che riesca a dialogare con le forze sunnite più radicali, ma ce ne sono altre in campo. Nulla è così bianco o nero come potrebbe sembrare».

Hezbollah, dal canto suo, starebbe creando una rete di amicizie con le milizie leali ad Al Assad. «Gli strateghi di Hezbollah sanno che potrebbero dover entrare in contatto con altri gruppi politici, anche sunniti, se Al Assad dovesse cadere. – dice Salamey – Dopo tutto Hezbollah è un partito islamista e ha già trattato con Hamas (che è sunnita ndr) e anche con gruppi islamisti (anch’essi sunniti ndr) in Egitto. Quindi perché non dovrebbe farlo con i gruppi islamisti siriani se questi dovessero uscire vittoriosi dal conflitto?».

A questo punto però è sempre più difficile azzardare previsioni su come possa concludersi il conflitto, e su chi possa uscirne vincitore. «Una vittoria dell’opposizione è improbabile, nonostante le voci sporadiche sulla sua imminente vittoria – dice a Linkiesta Michael Barnett, professore di Relazioni internazionali e Scienze politiche della George Washington university – e più il conflitto andrà avanti, più sarà difficile arrivare a un equilibrio dopo la fine del conflitto. Non solo. Più l’opposizione manterrà la propria posizione, ossia non intraprendere negoziati finché Al Assad sarà presidente, meno probabile sarà una soluzione politica». Anche Trentin è d’accordo sul fatto che, anche nel caso di una caduta del regime, «andremo incontro a una forte frammentazione tra le milizie, che detteranno le vere regole del gioco nel proprio territorio. Il che non è certamente una prospettiva rassicurante, anche per i Paesi confinanti.»

Timori, quelli di una Siria post-Al Assad fortemente divisa e scossa da violenti conflitti interni, che si basano anche sull’eterogeneità della società siriana. Definirlo un conflitto interconfessionale sarebbe quanto meno superficiale, ma resta il fatto che il tessuto sociale siriano è estremamente complesso.

Nonostante il regime sia prevalentemente di fede alauita, sarebbe sbagliato pensare che l’intera maggioranza sunnita del Paese sia corsa ad ingrossare le fila dell’opposizione. Molte famiglie sunnite, benestanti e residenti nei maggiori centri urbani del Paese, Damasco e Aleppo in primis, sono leali al regime per questioni economiche e imprenditoriali. È invece fra i sunniti delle zone rurali, quelli più poveri, che la chiamata alle armi dell’Esercito siriano libero ha avuto maggior successo.

Ma la Siria non si divide solo fra sciiti e sunniti. Una delle preoccupazioni principali di Ankara è la questione curda, ad esempio. I curdi rappresentano una minoranza etnica presente in Turchia, Iran, Iraq e, appunto, Siria. Proprio in Siria, dal conflitto, è nato il Partito di unione democratica (Pyd l’acronimo in lingua curda). Si tratta della milizia curda più forte nel Paese, legata al Pkk turco, questione ancora irrisolta in una Turchia che aspira al ruolo di leadership nel Grande Medio Oriente.

Ancora, l’est della Siria, chiamato anche Jazira (isola), è un territorio prevalentemente agricolo e pastorale, ma è pure quello dove si concentrano la maggior parte delle riserve petrolifere del Paese. Tenendo conto che l’agricoltura rappresenta circa il 20% del Pil e che il petrolio ne costituisce un altro 20%, oltre a valere metà delle entrate statali, non è erroneo dire che si tratta di una regione cruciale per il futuro della Siria. Una regione nella quale il fattore confessionale perde nettamente importanza in confronto a quello tribale.

Tanto che le tribù che hanno deciso di voltare le spalle ad Al Assad hanno costituito il Consiglio tribale, e ora collaborano con l’opposizione oltre che con l’Esercito siriano libero e, sembrerebbe, Jabhat Al Nusra. La decisione, da parte degli Stati Uniti, di classificare quest’ultima come organizzazione terrorista è stata contestata da Moaz Al Khatib, presidente della Coalizione nazionale delle forze di opposizione e della rivoluzione che, lo scorso dicembre, ha chiesto a Washington di riconsiderare la loro decisione.

La Coalizione, sostenuta soprattutto dal Qatar ed erede del fallimentare Consiglio nazionale siriano, ha appena eletto il suo premier ad interim per le zone attualmente “liberate”, ossia gestite dai ribelli. Si tratta di Ghassan Hitto, nato in Siria ma residente da 25 anni negli Stati Uniti, di cui è oggi cittadino.

Hitto sarà anche riuscito a farsi eleggere dalla Coalizione, che lo considera un buon mediatore fra le forze islamiste e quelle liberali in essa presenti. Ma non è altrettanto sicuro che riesca a convincere anche la popolazione delle aree conquistate dai ribelli.

Trasferitosi lo scorso autunno in Turchia, da dove si dedica alla causa dell’opposizione, Hitto deve fare i conti con una situazione interna quanto meno complessa. Perché quella che infuria da due anni in Siria non è solo una guerra per procura nella quale le grandi potenze cercano di difendere i propri interessi. È, naturalmente, anche una guerra civile. E la combinazione dei due aspetti potrebbe rivelarsi letale.

Ecco perché una soluzione politica che permetta alla Siria di uscire unita da questo conflitto pare sempre più lontana. James A. Reilly, professore di Storia mediorientale moderna all’Università di Toronto sottolinea a Linkiesta: «Non so se si possa ricostruire uno Stato siriano unitario. Forse la Siria diventerà come l’Iraq, il Libano o la Libia: un Paese che esiste sulle mappe, ma il cui governo sarà in realtà diviso fra gruppi armati, milizie e partiti».

Nella stessa direzione Gnehm, che sottolinea come «una delle lezioni della storia su questo tipo di situazioni è che quelli che combattono sul campo tendono poi a essere quelli che arrivano al potere alla fine della guerra, non i politici che siedono in comitati esterni o anche interni al Paese».

Anche una fonte di origini siriane che preferisce parlare sotto anonimato teme che la soluzione politica per uno Stato unico non sia più possibile. «Forse è già troppo tardi. Come siriana e come essere umano il mio primo obiettivo è che cessino le violenze. Dopo di che spero che si giunga alle soluzioni politiche necessarie, ma temo che la Siria non sarà più uno Stato così come noi oggi lo conosciamo». Senza contare il rischio che, anche nell’eventualità della caduta del regime di Al Assad, la Siria rimanga nel caos, divisa fra le diverse fazioni, milizie e gruppi armati siriani e stranieri. «La Siria ora è piena di armi – ci dice la stessa persona – e non ne sarà ripulita in una giornata solo grazie ad un cessate il fuoco».

E proprio in questo momento Francia e Gran Bretagna stanno portando avanti una campagna per convincere il resto degli Stati membri a togliere l’embargo europeo sulla Siria, per armare i ribelli. Una decisione che probabilmente alimenterebbe ancora di più la fiamma del conflitto, più che spegnerla. Di fronte alla ritrosia di chi, come Berlino, si mostra cauto sull’ipotesi di sostenere l’opposizione armata siriana con l’invio di armi, le due ex potenze coloniali non mollano la presa. Tanto da dichiarare di essere decise ad agire anche da sole qualora l’UE non le seguisse.

Forse, dunque, stanno per arrivare nuove ingerenze in una Siria già devastata dalla guerra (interna e per procura). La situazione siriana, peraltro, avrà pesanti conseguenze anche sul resto della regione. Gnehm lo conferma a Linkiesta. «Non c’è alcun dubbio su questo, indipendentemente dall’esito del conflitto. I Paesi che circondano la Siria hanno già i loro problemi interni, le fazioni che stanno lottando in Siria potrebbero essere fattori destabilizzanti per loro. Ad esempio – ipotizza Gnehm – se alla fine i Fratelli Musulmani arrivassero al potere in Siria, questo avrebbe conseguenze in Giordania, dove i Fratelli sono ben organizzati. Il governo iracheno poi, credo si trovi davanti a un vero dilemma. Senza dubbio a Baghdad non piace affatto il regime di Al Assad, considerando il supporto che questo ha dato a determinati gruppi coinvolti nella guerra civile irachena. Ma d’altra parte se in Siria arrivasse al potere un gruppo sunnita radicale, le cose non sarebbero per niente facili per il governo (sciita ndr) di Al Maliki».

La realtà è che in gioco ci sono gli interessi di troppi attori. Ognuno schierato a favore o contro Bashar Al Assad, e apparentemente disposto a prolungare il conflitto per tutto il tempo necessario a raggiungere il proprio scopo. Eppure, i rischi che questo comporta sono enormi, tanto che la Siria potrebbe davvero diventare uno Stato fallito. Quella Somalia sul Mediterraneo paventata dalla comunità diplomatica. Ma a chi potrebbe mai interessare un simile risultato? «A nessuno – risponde Barnett – ma è anche vero che è nell’interesse di certi attori prolungare il conflitto fino alla loro vittoria. Di conseguenza, probabilmente, finiremo con l’avere uno Stato fallito».

Al rischio di una guerra civile sanguinosa e ancora lunga si unisce anche quello della destabilizzazione dell’intera regione. Tra i Paesi più esposti c’è l’Iran che, nell’eventualità del crollo del regime di Al Assad, si troverebbe ancora più isolato e circondato da alleati della Nato. E poi quello, nel migliore dei casi, di un Paese frammentato e diviso che esisterebbe solo sulla carta.

È ancora difficile determinare il futuro della Siria. Ma non c’è bisogno di assistere ad altri mesi di conflitto per sapere che né la Siria né la sua società saranno più quelle di prima. Una terribile, triste conseguenza dell’incapacità (o della mancanza di volontà), da parte della comunità internazionale, di contribuire a porre fine al conflitto.

«La Siria era uno degli ultimi luoghi del Medio Oriente post-ottomano in cui comunità e religioni diverse vivevano fianco a fianco, contribuendo a una straordinaria cultura locale che si rifletteva sulla gastronomia, sull’architettura, sull’arte e sulle pratiche religiose. – sottolinea a Linkiesta Reilly – Quella società e le sue comunità sono ora dilaniate. È un’immensa tragedia umana. Il danno al patrimonio storico e culturale (costruzioni millenarie, monumenti, siti archeologici) è gravissimo. Forse addirittura irreparabile».  

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