Arrivano i geoclasti, imbandierati di cinque stelle. Niente da fare, niente fiducia. La linea è chiara, è quella dello spaccatutto. Distruggere il mondo dei partiti, annichilire questa politica. I geoclasti. Ma chi sono? Ci arriviamo: facendo un salto dall’oggi a un secolo fa.
Che il profeta di questa Apocalisse del Palazzo sia Gianroberto Casaleggio è fuor di dubbio (incarnando Grillo piuttosto l’ideologia guitta del “vaffanculo”, del “cazzo”, dei “coglioni”). È piuttosto evocativo il racconto del suo passatempo con un videogioco, riferito da Eugenio Scalfari sull’Espresso. Scrive il giornalista: «Il tema è quello della distruzione dell’Universo. È un gioco americano che insegna ai giocatori come si può ottenere la distruzione delle singole stelle, dei loro pianeti, delle costellazioni e delle galassie usando alcuni gas, alcune particelle elementari e alcuni campi magnetici. I giocatori usano la tastiera del telefonino nella quale ciascun numero corrisponde ai gas e agli altri elementi presenti nell’Universo per distruggere di volta in volta alcune delle sue parti i cui residui sprofondano nei buchi neri. Vince chi realizza la distruzione totale nel minor tempo possibile».
Dopotutto questo impulso irresistibile allo scenario apocalittico è fin troppo esplicito dal video prodotto qualche anno fa dalla Casaleggio Associati e intitolato Gaia, che poi sarebbe il nome del nuovo governo mondiale che sarà eletto per la prima volta nel 2054 (nel numero in edicola dell’Espresso, Scalfari spiega «perché Gaia mi fa paura: delinea un’ideologia terrificante, distruttiva, antidemocratica»). In Gaia si mettono in fila una serie di eventi e a un certo punto si comincia a predire il futuro. Succederà che nel 2020 (tra sette anni, in pratica quando scade il nostro prossimo presidente della Repubblica) scoppierà la terza guerra mondiale, che durerà vent’anni, e che comporterà «la distruzione dei simboli dell’Occidente: Piazza San Pietro, Notre dame, Sagrada Familia», il tutto tra «uso di armi batteriologiche, accelerazione dei cambiamenti climatici ed innalzamento del livello del mare di 12 metri», «fine dell’era dei carburanti fossili (petrolio)», e «riduzione della popolazione mondiale a 1 miliardo di persone».
Insomma, attrezzatevi, che qua si mette male. Presagi di una sventura prossima ventura, che trasmettono però più che la visione del futuro, l’inquietudine del presente. Una febbre che attraversa il corpo della società, e che restituisce nel profondo un sentimento di asfissia, perfino di inutilità.
Un suono analogo al fosco racconto del casaleggismo vive nelle oscure profezie di un libro completamente immerso nella politica italiana (era l’Italia giolittina) in cui l’autore allineava, nel personaggio del coprotagonista (un giornalista parlamentare) le stesse riflessioni che potrebbero farsi sui vizi odierni: corruzione, cinismo, trasformismo, opacità morale. È un sistema immobile, dove cresce un istinto di sovvertimento.
È L’Imperio: ultimo romanzo incompiuto di Federico De Roberto, forse il più ignorato tra i grandi scrittori italiani. Scrive a un certo punto De Roberto, per bocca del suo personaggio, Federico Ranaldi: «Questi uomini non crederanno di formare un semplice partito politico, ma una religione nuova, e un fervore mistico li animerà. (..) Ci furono un tempo distruttori di templi, di immagini, avremo i distruttori delle cose e della vita. Io già li presento, li vedo derivare dai più freddi e più logici anarchici. (..) Il passo non è lungo, qualcuno lo compirà. Un primo esempio sarà tosto seguito da altri; allora il partito sarà formato e conterà proseliti sempre più numerosi. E già mi par di sentirne ripetere i nomi. Perché odieranno la vita essi saranno chiamati biofobi; perché faranno saltare a pezzo a pezzo il mondo si chiameranno geoclasti».
De Roberto compone (senza giungere al termine) il romanzo del disincanto, dello scacco, e a ripassarlo ci si convince che l’Italia si sia eretta come una prolungata delusione. Lo scrittore catanese inizia a comporlo nel 1908, in pieno giolittismo e lo cura senza finirlo negli anni seguenti, carichi di sempre più pesanti malesseri continentali che condurranno al bagno di sangue tutto europeo della Grande guerra. Generazioni e stati distrutti tra le trincee e le linee di fuoco (ma non è marziale anche lo sprofondo dei conti nell’Ue di oggi?), un senso di annichilimento che De Roberto trasferisce nel romanzo, ambientato nel 1882, come naturale prosecuzione romana del suo capolavoro, I Viceré, «il più grande romanzo che conti la letteratura italiana, dopo I Promessi Sposi» secondo Leonardo Sciascia.
De Roberto si incarica di fare della sua opera nei suoi esiti più ambiziosi il racconto stesso dell’Italia, intento che trova simbolica corrispondenza nel fatto che entrambi, lui e l’Italia unita, siano nati nel medesimo 1861, a distanza di due mesi (purtroppo nelle celebrazioni del centocinquantesimo lo scrittore è parso quasi del tutto ignorato). Con Il ciclo degli Uzeda, iniziato con L’Illusione e proseguito con I Viceré, De Roberto traccia il potentissimo affresco della famiglia di spagnolesco blasone vicereale, i siciliani Uzeda appunto, in un racconto morale sull’eternità del potere e sul suo maleficio, che trova in due passaggi simbolo la piena definizione: «Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!», per concludere: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri».
L’Imperio è il terzo tempo del ciclo, quello in cui De Roberto mira al cuore del potere, alle sue stanze capitoline. L’erede della dinastia vicereale, Consalvo, si fa strada nella politica nazionale, perfezionando il cinismo familiare, impara e applica con scienza senza coscienza il trasformismo, la spregiudicatezza, l’ambizione senza freni, e conquista infine il comando, «l’imperio»: diventa ministro. Fa da contraltare all’ascesa di Consalvo la parabola esistenziale di Federico, salito a Roma da Salerno per fare il giornalista parlamentare e testimone dello sfascio morale dell’Italia umbertina (scrivendo De Roberto nell’Italia giolittiana). L’Imperio, romanzo delle grandi residue speranze personali – «avrà l’effetto di una bomba» era convinto De Roberto -, non sarà mai finito (Mondadori lo pubblicherà nel 1929, due anni dopo la morte dell’autore). De Roberto si è ormai chiuso nel silenzio della parola, come l’Italia nel fascismo. Ma quel libro resta, pur come splendida traccia tronca, con tutto il suo carico di inquietudine a interrogarci sul racconto politico dell’Italia, così mutata così immutabile.