Guerra e integrazione, la “piccola Siria” del Cairo

I siriani sono così tanti che in città sono sinonimo di “straniero”

Il Cairo è lontano pochi chilometri, eppure le strade sembrano quelle delle città siriane. Non è un caso: nei moderni quartieri 6 Ottobre e Rehab è sorta quella che gli egiziani chiamano la “piccola Siria”: profughi, rifugiati politici scappati dalla guerra di Assad trovano qui un riparo, e forse una nuova vita.

I segni sono chiari: intorno alla moschea Hossary sono spuntate decine di bandiere siriane. Ma non solo: rivivono in questi vicoli sapori e odori delle vie di Mohaddameya e Jedeida, ampie periferie urbane di Damasco. Qui, giovani donne camminano per strada con eleganti veli grigi e neri, stretti intorno al capo. «Siamo scappate da Homs un anno fa, prendendo un volo dall’aeroporto di Damasco», spiegano Walaa e Howaida. Passeggiano verso un palazzo che, a detta degli egiziani, è abitato solo da siriani.

Tutti conoscono i panettieri e i barbieri aperti intorno alle moschee dove gli abitanti di Aleppo e Daraa hanno trovato rifugio. «Ora lavoriamo nell’Accademia d’Arte qui a 6 Ottobre», racconta una donna. Intorno, bambini tra i 5 e i 7 anni dicono di preferire la Siria all’Egitto, giocando con i loro coetanei cairoti. Non hanno fatto molta fatica ad integrarsi.

«Siamo oltre un milione qui al Cairo», assicura Obeida, giovane studente di ingegneria dell’Università di Damasco. In realtà è difficile parlare di numeri precisi. Nessuno di loro è registrato presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unrwa). Si tratta spesso di emigrati di buona famiglia perché hanno potuto pagare un passaggio in taxi collettivi fino a Beirut e un volo per il Cairo. Una stima delle Nazioni Unite parla di 140mila rifugiati siriani, spostasi in Egitto per il conflitto che dilania il loro paese. Tanto che al Cairo la prima nazionalità che viene in mente alla gente per strada per definire uno straniero è ora: «siriano».

«Nel mio quartiere il regime ha ucciso molte persone», racconta Hassan. È seduto a un tavolo con altri due amici, un ingegnere e un architetto. Il più adulto tra loro, Haddad, ha usato tutti i suoi risparmi per aprire un bar. «Non crediamo né alla retorica del regime né a quella delle opposizioni: se Israele volesse, potrebbe fermare il regime in un’ora, se non lo fa vuol dire che a nessuno fa comodo che Assad vada via», sostengono.

In quel vicolo che separa due centri commerciali, sono centinaia i negozi e le attività che stanno per aprire. Alcuni vendono olive e spezie siriane su tavoli sistemati per strada. Altri hanno aperto negozi di kebab (con l’aggiunta di aglio, secondo la ricetta siriana). Poco oltre, si vendono frullati con l’aggiunta di latte e kunafa; e una torta ripiena di formaggio fuso, come nella tradizione damascena. «Noi siamo con le opposizioni, apprezziamo al-Khatib (leader islamista moderato, ndr)», aggiunge il giovane. Molti di questi ragazzi sono dei coscritti che anziché disertare il servizio militare hanno preferito prendere il primo volo da Damasco o Beirut per il Cairo.

Ma come hanno fatto? «Io ho pagato un gruppo di insorti che controllano l’aeroporto di Damasco e sono uscito dal paese con la mia famiglia 5 mesi fa», spiega Abdallah, giocando a tawula (backgammon) con un suo amico. L’uomo indica le bandiere dell’Esercito libero siriano per chiarire la sua opposizione ad Assad.

Tra i negozi di 6 Ottobre spicca un chiosco di succhi di frutta dal nome Vendetta. «Come il film», assicura Amir., il proprietario. «Abbiamo affittato questo posto ed era il nome giusto per la nostra aspirazione a libertà e democrazia», aggiunge insieme a suo fratello. «Non amiamo questa Siria e neppure al-Khatib, che ha lasciato le opposizioni perché ne vedeva tutti i limiti. Mentre chi sta all’estero, come Khaytam Manna, non ha una sua identità specifica», commentano. «Un nostro amico è stato arrestato e ucciso in prigione solo perché è sunnita», spiegano i giovani. Mentre sugli islamisti di al-Nusra hanno pareri contrastanti: «Ho amici che si sono uniti al movimento islamista, e ne sono soddisfatti», aggiunge il primo. «No, sono usati (i jihadisti, ndr) dall’esterno per spargere il caos», ribatte l’altro.

Ai comuni venditori di strada, lustrascarpe, mendicanti, bambini e storpi che affollano le strade del Cairo si sono aggiunti uomini adulti che portano spesso vesti tra le braccia. Nei ricchi quartieri di Mohandessin e Dokki girano con orologi, capi di abbigliamento, oggetti che propongono a prezzi stracciati a egiziani infastiditi. Anche loro sono rifugiati siriani in Egitto. Abdel Rahman è un turcomanno di Aleppo. «Vivo nella città satellite di 6 Ottobre da tre mesi con mio figlio. Vado ogni giorno a Mohandessin per tentare di vendere questi oggetti. Ho lasciato la Siria perché il mio quartiere è andato completamente distrutto».

Che si tratti di un’immigrazione di classe media è confermato dai quartieri dove vivono – già abitati da egiziani benestanti – e dalla facilità con cui hanno potuto ricostruire la loro vita in Egitto. Così, ovunque, spuntano negozi di dolci e specialità siriane. Mohammed e Ahmed vendono dolci siriani vicino piazza Lazogli nel centro del Cairo. Hanno trovato un banchetto e comprato un grande fornello. «Siamo qui da sette mesi in una minuscola casa dove viviamo in otto», spiega il più giovane. «Molti siriani sono qui per la guerra. Nella nostra città non si può lavorare né studiare», dice Mohammed. Entrambi erano studenti di economia all’Università di Damasco mentre l’altro giocava a basket nelle giovanili. «Hanno ucciso i miei vicini di casa, a quel punto ho raccolto i risparmi e con il sostegno della mia famiglia sono partito con 200 dollari, ma la vita qui resta complicata», sospira. 

Mentre il conflitto siriano si aggrava, la vita di uomini e donne, forzati a vivere nel clima torrido del Cairo, migliora. La “piccola Siria” attende che le acque si calmino per rientrare. Anche se queste vie danno il senso della precarietà potrebbero presto trasformarsi in un’enclave permanente.

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