Il grande Gatsby tradito da un film sciatto e moralista

Il film di Baz Luhrmann delude

Che sciocco moralismo in quest’ultima versione pop di Gatsby. Che piccineria da zitelle beghine: attenti a quella vita, ragazzi, perché ecco come finite. Finite come Nick, scampato sì alla morte toccata invece al suo amico Gatsby, ma ormai ridotto a un verme dall’alcol in un sanatorio.

È infatti in un sanatorio che indecorosamente Baz Luhrmann fa cominciare il film: Nick Carraway, testimone e narratore dei fatti, è ricoverato coi nervi ormai a pezzi e il medico gli fa scrivere le sue memorie, come è finito lì, cos’è accaduto, e così vien fuori la storia. Un vero tradimento del romanzo: che non è l’esemplare parabola di una romantica bellissima carogna, ma invece una delle più vive ed emozionanti tracce ideali che il Novecento ci ha consegnato in letteratura: la coscienza del fallimento. Nick vive e tramanda la storia di Gatsby non rappresentandola come viatico alla perdizione (quello che Luhrmann fa intendere) ma come una grandiosa lezione di vita, che in qualche modo fa il paio con quella che lo stesso Nick cita all’inizio del libro e che gli ha consegnato il padre: «Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno, ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi».

Sì perché Nick è nato ricco, tutti i personaggi principali sono nati ricchi, tutti tranne Gatsby. Ed è proprio per diventarlo, perché solo diventandolo può conquistare il cuore della donna che ama, Daisy, che Gatsby compie la sua scalata sociale con mezzi più o meno leciti, esibisce la sua acquisita affluenza, si incarica di incarnare il sogno americano, con il suo «straordinario talento per la speranza», e incarnandolo si incarica di farlo finire morendo.

La complessa, fluida, affascinante materia di cui è fatto Gatsby diventa nello stile scorreggione del regista australiano una lunga (troppo) coreografia di una New York anni ’20 ricreata a Sidney, a base di una colonna sonora debordante, intessuta di hip-pop, jazz e altri stili contemporanei, tra Jay Z, Beyoncé, Lana Del Rey e molti altri. Una scelta che a suo modo può anche funzionare, così come i gessati rosa fatti indossare al protagonista, anche se va sottolineato che l’unico momento davvero emozionante del film è la comparsa di Leonardo DiCaprio sulle note della «Rapsodia in blu» di George Gershwin, forse la miglior colonna sonora possibile di Gatsby: due creazioni quasi contemporanee (il pezzo musicale è del ’24, il romanzo esce nel ’25) entrambe impregnate di quell’effervescenza epica e moderna così legata alle promesse di felicità del Nuovo mondo.

Giustamente è stato notato (dalla studiosa Franca Cavagnoli) che il romanzo è «una rapsodia in blu, giallo e grigio», dove il blu è il colore della paura, della tristezza, il giallo il colore dei soldi e quindi della ricchezza, il grigio il colore della valle e dei dintorni malfamati della città dove ci sarà l’incidente che farà precipitare la vicenda. È una tavolozza di colori che Luhrmann riprende in pieno nella costruzione di molte scene e che in fondo caratterizza il volto, effettivamente l’unico possibile oggi per Gatsby, di Di Caprio, biondo nei capelli e azzurro negli occhi, il più grande divo contemporaneo, purtroppo non ben servito da questa sceneggiatura solo decorativa.

Indispensabile è spendere qualche parola su Daisy, stella di attrazione di ogni scelta, ogni sogno, ogni singolo atto di Gatsby. Daisy è interpretata dalla pur generalmente brava Carey Mulligan, che nel film sembra quasi condividere dolorosamente, nella sua postura sempre un po’ dimessa, le avversità di un amore sbagliato, e che invece assai più opportunamente nel romanzo è fino in fondo rappresentata come un’inguaribile stronza: per niente al mondo rinuncerebbe agli agi acquisiti della propria posizione matrimoniale a cui sarebbe troppo scomodo rinunciare, facendo scientificamente prevalere l’interesse sull’amore; non si presenta nemmeno ai funerali di Gatsby; lascia che sulla memoria di Gatsby ormai morto si riversi ogni infamia…

Luhrmann stinge tutto questo nella sua acqua di colonia, appiattisce le profondità pur usando un inutile 3D, anestetizza quello che poteva risultare lontanamente scomodo. C’è un personaggio, Meyer Wolfsheim, boss della mafia ebraica, sotto la cui ala Gatsby diventa straricco: ebbene, nel film l’ebreo Meyer diventa… un indiano! Ma perché? Per evitare accuse di antisemitismo, peraltro inesistente nel romanzo? Fitzgerald semmai introduce il tema del razzismo su un altro versante, cioè nell’atteggiamento che attribuisce ai ricchi, in specie al pessimo marito di Daisy, Tom, che si sente classe superiore e che in quanto tale deve difendere le posizioni. Per esempio dai neri (è inquietato da un libro sull’ “Ascesa degli imperi di colore”), o da quelli come Gatsby.

È una melma umana insopportabile, l’upper class newyorkese. E così Nick disgustato da quella gente, da loro che pure gli sono mezzi parenti, se ne va nel vecchio caro Midwest delle origini (in pratica tutti i personaggi principali, Gatsby compreso, vengono da lì): non perché ormai fottuto dall’alcol, ma perché non c’è più Gatsby, non c’è più un sogno pur destinato a morire. Anzi proprio il suo assassinio anticipa sinistramente il baratro del ’29: il futuro è una ricaduta nel passato, nel futuro ci saranno le macerie. Uno scenario che Fitzgerald avverte e rilancia con la profezia della letteratura, nell’indimenticabile finale, che la voce narrante di Tobey Maguire ci ripete:

«Gatsby credeva nel futuro orgiastico che anno dopo anno si allontana da noi. Allora ci sfuggì, ma non importa: domani correremo più veloce, distenderemo le braccia più lontano… e un bel mattino… Così seguitiamo a bordeggiare come barche controcorrente, sospinte di continuo nel passato».

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