Non è una questione di moduli, questi restano e si adattano ai nuovi interpreti: dal palleggio irritante – specie per chi le prende – del Barcellona a quello più polmoni più forza fisica che è stato ormai decretato a leit motiv della prossima finale di Champions League. Poi, che un allenatore punti al possesso palla o piuttosto al contropiede, non importa perché ciò che conta è vincere e basta segnare un gol in più dell’avversario, pur giocando male vale a dire pur non piacendo a critici ed esteti. Chi se ne frega: è professionismo, mica una sfilata. Non è una questione di tattiche, ma di applicazione.
Esistono tre categorie di tecnici: quelli che operano sotto una pressione tremenda e continuano a riempire la bacheca di trofei; quelli che portano a casa un successo contro ogni pronostico; quelli che si distinguono per migliorarsi, perfezionare il proprio stile sempre indipendentemente dal fatto che piaccia o meno agli altri, basta che calzi a pennello ai suoi uomini in campo. Ora, che Sir Alex Ferguson in 39 anni di carriera abbia aggiunto il proprio nome a ciascun gruppo è un dato numerico e basta la consueta tabella ospitata su Wikipedia, dove in scarni numeri è riassunto il curriculum di un personaggio, per confermare la sentenza.
Facile ricordare i successi con il Manchester United (primo gruppo: club forte, abituato a vincere, ma non sazio e dunque ecco arrivare altri titoli), c’è però l’Aberdeen con il quale cominciare. Città granitica, terza per popolazione in Scozia dopo Glasgow ed Edimburgo e se Edimburgo nel calcio dice poco, Glasgow è dove Celtics e Rangers hanno gestito l’oligopolio, finché i Rangers non sono falliti dovendo risalire la china dalla Third Division. In patria Ferguson ha vinto quattro campionati, quattro coppe e si è accreditato a livello europeo con l’Aberdeen, merito di una Coppa delle Coppe e di una Supercoppa europea.
Secondo gruppo: ma dove cavolo sarà questa Aberdeen? Ah sì, di fianco alle Highlands. E che mai arriverà da Aberdeen, a parte il petrolio o il granito? Un po’ come Nottingham, che cosa potrebbe mai lasciare di così interessante in eredità che non sia la leggenda di Robin Hood, ormai declinata al complottismo 2.0 che rivolge e stravolge tutto, privandola del fascino del filone “cappa e spada”? Un back to back nella Coppa dei Campioni, quando erano solo i primi della classe a contendersi il premio: 1979 e 1980, in panchina Brian Clough, il prototipo del manager moderno e antesignano del protagonismo alla José Mourinho che fa gravitare attorno a sé quanto può accadere in una lunga stagione di calcio. Notare: mentre Clough lasciava in eredità al Forrest il vanto di appartenere ai migliori club della storia europea e mondiale, Ferguson consentiva all’Aberdeen di vantarsi di aver scalfito l’oligopolio Celtics e Rangers.
In questi giorni è riproposto il repertorio delle migliori battute di Sir Alex e per fortuna esistono i virgolettati perché in presa diretta solo un ascoltatore con l’orecchio abituato allo spigolo accento del Nord, partorito dall’incrocio tra britanni e scotti, può coglierli appieno. Vallo a capire ciò che dice! – sarà anche colpa della cicca masticata per novanta minuti, chi diavolo lo sa. C’è un tale nella storia dello sport che gli somiglia: è scozzese pure lui come d’altronde lo è David Moyes, incaricato a prenderne il posto dopo all’Old Trafford: cinquantenne, dal 2002 alla guida dell’Everton con il quale ha sfiorato una FA Cup e centrato per tre volte il titolo miglior allenatore dell’anno (buona fortuna, Mr. Moyes, la gavetta non le manca). Il tale che gli somiglia è Jim Telfer, ex head coach della Scozia rugbistica che nel 1999 conquistò l’ultima edizione del 5 Nations – dal 2000 si aggiunsero gli Azzurri e gli scozzesi perdettero al Flaminio, restando con il cucchiaio di legno in mano.
Telfer è un campione di motivational speech, le recite per gasare gli uomini prima dello scontro: è passato alla storia quello del 1997 quando da allenatore della mischia della selezione dei British Lions impegnati in Sud Africa avvertì i suoi che ci sono due tipi di rugbisti: “Quello onesto si sveglia la mattina e si guarda nel fottuto specchio, fissa il suo standard, si mostra per ciò che è e dice: farò meglio”: il manuale per sopravvivere nel terzo gruppo.
Nel recente passato del Arrigo Sacchi ha costruito una dinastia al Milan, lo stesso ha saputo fare Giovanni Trapattoni alla Juventus: due stili diversi, ma è l’efficienza il risultato che ciascuno dei due si attendeva e così è stato. Il calcio poi è cambiato: José Mourinho ad esempio transita per le capitali calcistiche europee (pure a Ferguson nel 1999 riuscì il triplete e un anno dopo alzava nuovamente la coppa della Premier League) però gli mancherà l’Old Trafford, pare-dice-sembra-è certo che lo rivedremo allo Stamford Bridge, diciassettesimo allenatore del Chelsea dal 1992 ad oggi e appena oltre la metà dei titoli vinti da Ferguson nello stesso arco di tempo. Il Sir di Glasgow, appiccicando il chewingum al muretto a bordo campo, è l’ultimo esemplare rimasto del patriarca che sa dire basta – a Manchester, sponda United, non hanno bisogno di campagne per la rottamazione che, se mal gestite, producono bellocci bravi a tenere ordinate barba e basette e a sfoggiare la bocca imbronciata, meno nel mettere in campo una squadra competitiva.
Ryan Giggs, Paul Scholes, Eric Cantona, Roy Keane, Teddy Sheringham, Paul Ince, Dwight York, Peter Schmeichel, Gary Neville, Jaap Stam, Ole Gunnar Solskjær, Rio Ferdinand, Michael Carrick, Cristiano Ronaldo, Wayne Rooney. David Beckham, che sa cosa voglia dire fare incazzare un patriarca, con i tacchetti che filano dritti verso il sopracciglio nella sancta sanctorum dello sport, lo spogliatoio. Ferguson ha superato indenne gli interregni di Alan Shearer (il mitico Blackburn del 1994/95, adesso i Rovers si salvano a malapena nel Championship), Arséne Wenger, Mourinho, Carlo Ancelotti e Roberto Mancini: il City si era pure aggiudicato Carlos Tevez, augurandogli un benvenuto a Manchester il giorno della firma sul contratto. “Il City, giusto? Piccolo club, con una piccola mentalità”: soldi a palate dagli sceicchi e un solo campionato, Ferguson si appresta a salutarli con tredici punti di scarto.
Perché i soldi pesano, ma fruttano se finanziano idee valide. Adattarsi e raggiungere lo scopo: dalle ali all’impiego di trequartisti, dai Calipso Boys alle mezzepunte, dalle sovrapposizioni in fascia ai registi in mezzo al campo, l’importante per Ferguson è sempre stato l’accoltellata di contrattacco. Un tecnico d’utensili – lo fu fino al 1964, quando fu ingaggiato dal Dunfermline e da lì sarebbe andato ai Rangers – sa come aggiustare e quali pezzi di ricambio occorrono. Il gestore di un pub – e intanto giocava per l’Ayr United – impara le battute che aiutano a troncare una discussione marcando il gol della vittoria e a riconoscere la qualità: “Mi ha chiamato boss quando abbiamo bevuto nel dopo partita, ma avrebbe aiutato se questo benvenuto fosse stato accompagnato da un buon bicchiere di vino. Quello che mi offrì (Mourinho, ndr) andava bene per sverniciare”.
Mercoledì fuori dall’Old Trafford c’erano ragazzi al di sotto dei trent’anni che piangevano. Davvero, piangevano mentre l’inviato della radio Talk Sport li intervistava e questi ripetevano “my generation”, “my generation”, a singhiozzo, una cover imbarazzante del pezzo degli Who. Che Dio conservi la salute a Mr. Moyes, per sopportare tutto ciò. La prima partita di Ferguson da manager dei Red Devils si concluse sul 2-0 per l’Oxford United e nel 1989 uno striscione dei suoi tifosi sanciva: “Tre anni di scuse ed è ancora una situazione di merda, ta ra (addio) Fergie”.
Ci si ricorda dell’epopea di Matt Busby, Bobby Charlton e George Best e ci si dimentica che poi fu periodo di magra, con retrocessioni e risultati mediocri ed una serie di cambi in panchina che non partorirono nulla di eclatante, a parte un bilancio iniziale di 13 vittorie in 15 partite nella stagione 1985/86 per quindi chiudere al quarto posto. È la damnatio memoriae portata dai grandi, che nel corso del loro operato fanno scordare i tempi morti e grigi – gli stessi che come fantasmi riaffiorano quando, dopo che i grandi hanno salutato, i fatti prendono una piega diversa. Londra d’altra parte si fece impero disponendo le cornamuse davanti ai reggimenti per dare una cadenza alla marcia trionfante: Moyes si armi dello stesso coraggio, è il nuovo feldmaresciallo (Field Marshal, maresciallo di campo). Tutto il resto è Sir Alex Ferguson.