Domenica si vota a Bologna per un referendum consultivo voluto da cittadini bolognesi e da alcune guest star non bolognesi: Margherita Hack, Serena Dandini, Flores D’Arcais, Camilleri, Scamarcio; per non tacere dell’immancabile Dario Fo e dell’onnipresente Rodotà. Strano manchino Saviano e Celentano, altrimenti avremmo il “meglio” delle firme di un qualsiasi appello di Repubblica.
Oggetto del contendere sono le scuole dell’infanzia (le materne) paritarie. Oggi l’offerta pubblica a Bologna è composta da tre tipologie di gestore: il Comune (60%), le scuole paritarie (23%) e lo Stato (17%). Alle prime scuole sono destinati 38 milioni, alle altre circa un milione a testa. I soldi del Comune ai soggetti convenzionati servono a migliorare la qualità dell’offerta educativa e a garantire l’equità tariffaria in tutte le scuole paritarie.
I gestori dunque si integrano tra loro e non si limitano ad aumentare l’offerta ma la arricchiscono reciprocamente in quella che il Prof. Zamagni chiama “sussidiarietà circolare”. La convenzione con il Comune prevede il rispetto da parte dei privati di standard qualitativi elevati, di personale adeguatamente formato e retribuito, nonché l’obbligo di accogliere qualsiasi bambino senza discriminazione alcuna.
I referendari parlano genericamente (e impropriamente) di difesa della Scuola Pubblica e/o della Costituzione, ma stranamente omettono il dettaglio che la legge 62/2000 che ha introdotto la parità è stata più volte “difesa” dalla Corte Costituzionale (ordinanze 42/2003 e 38/2009). In realtà il quesito è molto preciso: chiede di indicare come utilizzare il milione di euro che il Comune dà alle scuole dell’infanzia in convenzione e propone due opzioni: (A) alle statali e comunali; (B) alle paritarie private, come adesso.
Se vincesse la “A” quel milione si aggiungerebbe ai 38 che già il Comune destina alle proprie scuole, incrementando così l’offerta a gestione diretta. Di quanto? Il conto è semplice: dato che un posto alla materna comunale costa circa 7.000 euro, l’offerta aumenterebbe di circa 150 unità. Peccato che oggi le paritarie accolgano più di 1.700 bambini… Com’è possibile questa differenza di costo? Le ragioni sono banali per chiunque conosca come funziona il sistema pubblico integrato di istruzione e formazione nel nostro paese. Al Comune la gestione costa più che al privato, ma soprattutto le rette a prezzo pieno di chi manda il proprio figlio in una paritaria (i gestori privati non accolgono solo bambini “convenzionati”) coprono gran parte dei costi generali.
Sorprende come persone che si dicono di sinistra non colgano il valore redistributivo delle convenzioni: le famiglie che si possono permettere la retta di una scuola privata contribuiscono a erogare un servizio a famiglie che invece versano la stessa retta che pagherebbero in una scuola a gestione comunale o statale. In questi firmatari compulsivi di appelli prevale evidentemente l’aspetto ideologico: non importa se il sistema consente di ridurre le liste d’attesa e rendere più universale un servizio essenziale; ciò che conta è impedire che soldi pubblici finanzino un privato.
L’intento è ovviamente legittimo; autolesionista, ma legittimo. L’importante è che i bolognesi sappiano qual è la posta in palio. In caso di vittoria della “A”, il risultato sarà uno solo: alcune famiglie saranno impoverite perché pagheranno rette più alte, alcune andranno in una scuola comunale (togliendo però un posto ad altri), alcune allungheranno le liste d’attesa. Nessuno di questi effetti mi sembra auspicabile e spero quindi che nelle urne prevalga la “B”. B come Buonsenso.
*tratto da QdR, Qualcosa di Riformista, pubblicato il 22 maggio 2013