Quando Edward Snowden ha svelato al mondo l’esistenza di Prism, il massiccio programma di sorveglianza della National security agency, i liberal del New York times sono insorti contro Barack Obama, il presidente «che ha perso tutta la sua credibilità». Pentiti, nel giro di poche ore hanno aggiustato prudentemente il tiro: «Ha perso tutta la sua credibilità su questo argomento». Ora che la credibilità del Presidente si sta sgretolando su molti argomenti, e non soltanto su uno in particolare, c’è da chiedersi se non sia stato lo spirito di Freud a dettare la prima versione di quell’editoriale.
I sondaggi sono in caduta libera. Nell’ultimo mese la popolarità del presidente ha perso 8 punti, arrivando al 45 per cento, picco negativo nell’ultimo anno e mezzo di governo. Ad aver voltato le spalle a Obama sono soprattutto quelli che ne hanno decretato la fortuna, i democratici under 30, fascia demografica in cui il presidente ha perso in poco tempo il 17 per cento dei consensi. Il 54 per cento degli americani disapprova esplicitamente l’operato della Casa Bianca, e il sistema di sicurezza che lega il presidente al modus operandi del suo predecessore, George W. Bush, sembra soltanto uno dei capitoli di questa narrazione declinante.
L’apparente decisionismo sulla crisi in Siria si è trasformato in fretta in un’ammissione di debolezza. Dopo aver accertato che l’esercito di Bashar al Assad ha usato armi chimiche contro i ribelli, varcando la famosa linea rossa fissata da Obama, la Casa Bianca ha deciso di inviare fucili e armamenti leggeri con i quali difficilmente il Free syrian army potrà respingere l’aviazione, i carri armati e – appunto – gli attacchi chimici di Assad. C’è una guerra di palazzo in corso a Washington fra interventisti e neutralisti, ma la piccola manovra obamiana ha lanciato un messaggio di sostanziale disimpegno agli alleati aggressivi e ai competitori che sostengono il regime Siriano, primo fra tutti quel Vladimir Putin con il quale Obama non riesce a sorridere nemmeno durante una photo opportunity al G8. Il presidente sa che la maggioranza degli americani è contraria a un intervento militare in Siria, ma per la prima potenza mondiale la credibilità si misura anche e soprattutto nei rapporti con le altre potenze.
Sul fronte afghano, le trattative di pace con i talebani sono saltate prima ancora che arrivasse un annuncio ufficiale. Con l’aiuto dell’America i talebani hanno aperto un ufficio di rappresentanza in Qatar ma l’ufficialità con cui si sono presentati ha fatto imbestialire il governo di Hamid Karzai, che si è chiamato fuori non soltanto dai colloqui con i talebani supervisionati dall’America, ma ha congelato anche i delicatissimi negoziati con Washington per stabilire i dettagli del ritiro dei soldati nel 2014. Ci sono volute tre telefonate del segretario di Stato, John Kerry, una marea di scuse e alcune concessioni per far ragionare Karzai e portarlo su posizioni più miti. «Parla a bassa voce ma porta con te un grande bastone», diceva Theodore Roosevelt; il bastone di Obama in Afghanistan non è particolarmente minaccioso se il presidente si permette scenate pubbliche ogni volta che sente vagamente minacciata la sua autorevolezza e i talebani in una mano hanno un ramoscello d’ulivo e sulla spalla un lanciagranate come quello usato per uccidere quattro soldati americani mentre a Doha si discorreva di pace.
Il caso dell’agenzia delle entrate che arbitrariamente vessava le associazioni legate al mondo conservatore brucia ancora sotto la cenere dei nuovi scandali che si accumulano. Quello dei giornalisti dell’Associated press controllati dal dipartimento di giustizia in cerca di talpe governative da punire è stato incluso nel più generale tema del controllo orwelliano, ma il presidente dell’Ap, Gary Pruitt, lancia strali infuocati, dice che le fonti si sono zittite per paura di essere scovate dal Presidente che ha indagato più leaker di tutti i suoi predecessori messi assieme e spiega che il governo si è fatto «giudice, giuria e boia».
Obama ha promesso ancora una volta di chiudere il carcere speciale di Guantanamo, ma qualche giorno fa il Miami Herald ha ottenuto, dopo una lunga battaglia legale, la lista di 48 detenuti «a tempo indeterminato», quelli che per diverse ragioni il Pentagono non può processare e dunque trasferire ai paesi terzi. Al superavvocato Clifford Sloan è stato affidato il compito di chiudere il carcere, ma non è chiaro quali strumenti abbia in più rispetto al suo predecessore, Daniel Freid, assegnato ad altri compiti per manifesta inutilità del suo ufficio.
Nel suo discorso alla porta di Brandeburgo il presidente ha usato la solita arte oratoria per condurre l’uditorio in quell’etereo mondo di giustizia e pace evocato da Kennedy a Berlino. Ha immaginato un pianeta senza armi nucleari (o quasi), senza i tic bellicosi e divisivi della Guerra fredda e della guerra al terrore, ha dipinto scenari armoniosi e citato pensatori illuminati, ha parlato dei diritti civili e degli ideali del mondo libero. Soddisfatto dell’esercizio estetico è tornato ad occuparsi della sua crisi di credibilità.
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