La salvezza per il Cavaliere in cambio del suo ritiro dalla scena politica. È un pensiero tormentoso e insieme inebriante quello che attraversa la testa di Massimo D’Alema e forse anche di Enrico Letta e di Giorgio Napolitano, perché è nella sinistra, nei corridoi meglio riparati del Pd e in quelli silenziosi e riservatissimi del Quirinale e di Palazzo Chigi che si agita la questione delle questioni, in un turbinio amletico, vertiginoso.
Per la prima volta il famoso salvacondotto è nella disponibilità del centrosinistra, l’inafferrabile ed evanescente strumento salvifico che per anni ha alimentato la fantasia dei giornalisti e di alcuni politici esiste, si è improvvisamente materializzato nelle mani del Parlamento. A novembre, se davvero Berlusconi finisse condannato dalla Cassazione, e se dunque sul serio l’uomo che per vent’anni ha dominato il proscenio politico d’Italia finisse interdetto dai pubblici uffici, allora il Senato dovrebbe votare, il Parlamento sarebbe chiamato a esprimersi sulla sua decadenza dal seggio senatoriale con tutto ciò che ne consegue, compresa la perdita delle guarentigie. Ed ecco emergere magicamente dal caos un’occasione nuova e forse irripetibile per sciogliere il nodo gordiano di Silvio Berlusconi, “tu ti pensioni e noi ti salviamo”.
E’ un sussurro che s’intercetta appena negli angoli meno illuminati del Palazzo, sono mezze frasi, pensieri inconfessabili e ancora scomposti, ma nel Partito democratico si sono accorti di avere in mano, per la prima volta, le carte vincenti; e non sul terreno del conflitto giudiziario-politico, ma su quello politico-politico. Il baratto, lo scambio, è il sistema più classico della meccanica parlamentare non solo italiana, e fra tre mesi, quando l’irreparabile giudiziario si abbatterà sul Cavaliere, a scrutinio segreto, nell’aula di Palazzo Madama, dove nessuno sa e pochi vedono, potrebbe accadere il miracolo di un’incongrua maggioranza che metta in salvo il Berlusconi sconfitto dai Tribunali per consegnarlo a una definitiva sconfitta politica. La pensione.
L’Italia stanca e stordita dalla crisi economica è la stessa Italia che, distratta, non si accorge di come la guerra dei vent’anni sia arrivata al suo ultimo e definitivo capitolo militare: precipitano tutti i guai giudiziari del Cavaliere, e precipitano tutti insieme. Tra pochi mesi Berlusconi potrebbe non essere più eleggibile, si troverebbe nella condizione di condannato in via definitiva, ma ancora leader di un partito cospicuo e ancora imputato in una miriade di processi destinati a scandire la sua esistenza fino ai suoi ultimi anni di vita. Cosa farà il Cavaliere adesso che la corte costituzionale gli ha dato torto, ora che rischia grosso, adesso che potrebbe ritrovarsi, a novembre, ad essere metà uomo di stato e metà pregiudicato? Nanni Moretti, nel Caimano, con quella finale e apocalittica scena di guerriglia e di fiamme, ha offerto un’immagine terribile e irreale perché le vicende giudiziarie altrui non scatenano passioni così violente nel popolo. Ma le tragedie economiche e collettive, la paura di diventare poveri, la fame, quelle sì, sono l’origine e la scintilla d’ogni tumulto anche irrazionale come scriveva Manzoni, «il male durava e cresceva e la moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore…».
E dunque non è un caso se a Palazzo Grazioli, nel Castello, è fatto divieto di parlare di processi e di governo, di legare il destino della grande coalizione a quello delle vicende giudiziarie del grande capo. Berlusconi, come il Don Gonzalo dei Promessi Sposi, è l’uomo che sa assecondare il cuore del popolo. Dunque a Palazzo e nelle dichiarazioni pubbliche, in televisione, sui giornali, si parla solo di crisi economica, di recessione, di meno tasse, e se c’è da soffiare direttamente su Enrico Letta, gli si dice che “deve sbattere i pugni e non i tacchi di fronte ad Angela Merkel”. Nelle stanze del governo, tra i ministri del Pdl, che comprensibilmente vorrebbero continuare ad esercitare l’arte appagante del potere, si mormora una litania dolente che suona più o meno così: “Vedrete che minacceranno di fare cadere le larghe intese, cento volte da oggi, e su un argomento qualsiasi, ce ne sono a bizzeffe, dall’Imu all’Iva, fino al destino dell’euro”. La verità il Cavaliere non la confessa mai a nessuno, forse solo ai suoi avvocati, gli uomini che partecipano alle uniche riunioni che a Palazzo Grazioli si tengono davvero a porte chiuse, nel grande studio del secondo piano, quello con la severa scrivania settecentesca.
Dunque nessuno dei gran dignitari del Pdl, né Daniela Santanchè né Angelino Alfano, né Fabrizio Cicchitto né Renato Schifani, che sia falco o che sia colomba, è davvero sicuro delle intenzioni di Berlusconi. Così ciascuno dei cavalli del Cavaliere ha l’impressione di recitare un ruolo, una sceneggiatura a soggetto in un teatro politico di cui l’ex premier è il solo regista, l’unico che conosca l’evoluzione della trama e il finale del dramma. Il governo è destinato a cadere dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha negato il legittimo impedimento nel caso Mediaset? Fino a che punto il grande capo è disposto ad arrivare nel vertiginoso gioco al rialzo che intreccia tra loro le sue personali vicende giudiziarie e la vita della grande coalizione guidata da Letta? Nei suoi incontri privati e nelle telefonate, nei colloqui con il grand visir (e zio del premier) Gianni Letta, il Cavaliere inquieto vuole soprattutto che i messaggi arrivino a destinazione, a Palazzo Chigi e al Quirinale: “L’hanno capito qual è il problema vero?”.
Sì, l’hanno capito, e la questione si agita infatti nei dedali sotterranei che collegano tra loro le istituzioni e il Partito democratico, perché il centrosinistra è attraversato da tentazioni divergenti, alcune forcaiole, altre meno, e si trova pure in una condizione di parziale inagibilità politica per la contesa congressuale che di fatto già divide il destino di Matteo Renzi da quello di Enrico Letta e di altri dirigenti di più vecchio conio. Dunque gli uomini più dentro le cose, i grand commis de l’état come Giuliano Amato, ma anche le vecchie volpi di partito come Massimo D’Alema, non hanno intenzione di far deflagrare anzitempo la grana Berlusconi, ben sapendo che il Pd non reggerebbe quello che già viene avvertito come “un ricattuccio” del Cavaliere: “o fate come dico io o il governo cade”. E così si lavora a una soluzione più ambiziosa, a una trama complicatissima che ribalta la logica di Berlusconi ma che mira comunque a salvaguardare l’esperimento del governo: è la strategia del baratto, che gli ambienti dalemiani del Pd vorrebbero spingere fino alle conseguenze più vantaggiose, fino al pensionamento di Silvio Berlusconi che inseguìto dalle sentenze di condanna definitiva non potrebbe che accettare. Ma chissà.
Nel mondo favoloso di Arcore è tornata ad affacciarsi l’ipotesi della successione dinastica, e nei piani alti di Mondadori e di Mediaset in molti adesso dicono che Marina Berlusconi potrebbe anche succedere al padre (se interdetto) nel ruolo di leader operativo. E sarebbe la soluzione fine di mondo, Marina come vendetta del padre, “mi avete voluto fare fuori ma non è finita”, una Berlusconi in gonnella accanto al vecchio Silvio ormai incandidabile ma sempre indomabile, l’arma finale da sfoderare solo nel caso in cui ogni mediazione dovesse fallire. Ecco, appunto, la mediazione. È la grande tela che i migliori tessitori politici d’Italia cercano di intrecciare con il poco filo rimasto. Mancano solo tre mesi. A novembre la sentenza di Cassazione, poi il voto del Parlamento sulla decadenza di Berlusconi. Poi il botto?
Twitter: @SalvatoreMerlo