C’è un’isola, nel mare di Napoli, che pare una barca tra le onde, non così lontana dalla terraferma per poter essere alla deriva, non così vicina per lasciarsi spiaggiare sulla riva, tra gli scogli di Posillipo e gli acciai di Bagnoli.
C’è un’isola e sull’isola c’è un carcere, che è una galera anche se oggi si chiama istituto penale, con la consuetudine moderna di cambiare nome ai problemi, anziché provare a risolverli, anche se qualcuno una soluzione pur piccola la va cercando e nessuno lo sa.
È Nisida, l’isola, e che davvero sia un’isola, anche questo nessuno lo sa: lo canta Edoardo Bennato e lo si vede dal promontorio di Coroglio, da cui il golfo di Napoli si vede che è un incanto e Nisida è lì, non così lontana, né così vicina, con un braccio di rocce e cemento che la afferra, la tiene vicina e lontana e la fa apparire penisola, ma sempre isola è.
Sull’isola, nel carcere, c’è la scuola. Questo per dire ai giovanotti là fuori che, se pensano che sia meglio la galera della scuola, ebbene, in galera c’è la scuola e non è il caso di pianificare imprese criminali per evitare un’interrogazione…
Sull’isola, nel carcere, nella scuola, c’è una maestra. Anzi, ce n’è più d’una di maestra, come in tutte le scuole, ma lì, forse, un po’ di più. Sono maestre piccine, come tutte le maestre, ma non hanno marmocchi in grembiule, ancor più piccoli di loro, tanto da farle apparire grandi. I loro bambini sono ragazzi che sembrano uomini fatti e finiti, grandi e grossi così, ma accanto a loro le maestre anziché rimpicciolire di più restano maestre, mentre gli uomini, ragazzi, sono bambini, sotto la loro scorza grossa e grande così.
Le maestre ci sono e nessuno lo sa.
La grammatica, sull’isola, spesso ha più a che fare con gli affetti che con la lingua e non è un caso se molti di quei ragazzi gli affetti mai li hanno provati e balbettano nella vita più che con le parole. Allora, con la maestra, si aggiustano le vocali e, già che si è in ballo, si aggiunge una acca qua e là e la O diventa oh, la A diventa ah, la E diventa eh e oltre alle parole si prova il gusto di una piccola emozione.
La sintassi, sull’isola, spesso è più impegnata a sbrogliare la matassa aggrovigliata di una vita sgrammaticata, che a mettere in bell’ordine una parola dopo l’altra. E non è un caso se si resta senza parole, di fronte a un nodo troppo intricato e indecifrabile in ognuno di quei ragazzi. Un nodo più scorsoio che piano e mai che si trovi un vecchio lupo di mare, sull’isola, abile con le gasse e a toglierti dalle correnti. Una maestra invece sì, con le sue dita aguzze, ogni tanto un nodo lo allenta e senti un respiro che riprende.
A vederle, le maestre in galera sono in galera anche loro, come quei ragazzoni bambini, che in galera lo sono davvero. Si portano ogni sera a casa il lavoro, perché è impossibile toglierlo dai pensieri e mangiarsi una pizza in tranquillità.
Tutte le maestre del mondo seguono i loro pargoli anche dopo la fine delle lezioni, si emozionano per i loro successi grandi e piccoli, si rattristano per i loro guai piccoli e grandi, o enormi come nella scuola sull’isola.
E se qualcuno si aggrappa, alla tua grammatica e alla tua sintassi, certo non puoi scrollartelo di dosso, altrimenti non saresti lì con loro, nella loro scuola, sulla loro isola, nel loro mare. Anche perché aggrapparsi e scegliere il futuro, anziché il passato è raro e difficile, soprattutto quando il passato è un passato così e il futuro non si sa cosa sia. Capita, allora, che una maestra faccia da ponte, tra passato e futuro, e che una ragazza lo attraversi, quel ponte, raccogliendo qua e là un affetto e un’emozione, lasciandosi l’isola un po’ alle spalle e un po’ dentro di sé. Capita che una maestra sia maestra davvero, come la strada maestra, come l’albero maestro dei velieri che a volte intorno all’isola veleggiano.
Capita e nessuno lo sa.
Nessuno lo sa cosa accade sull’isola e pochi sanno che esiste davvero. I galeotti non li vuoi vedere: quando sono fuori speri di non incrociare mai la loro strada; quando sono dentro per te non ci sono. Eppure sono lì, nel mare, nel carcere, a scuola e le volte che anche a loro scappa un sorriso, non è diverso dal tuo, quel sorriso. Sono lì perché l’hanno fatta grossa, spesso molto più grossa di quanto tu abbia voglia di immaginare e non lo vuoi sapere cosa li abbia fatti finire lassù.
Però è un’isola, Nisida, e qualcuno lo sa. Sono tante piccole isole, i ragazzi e le ragazze là dentro, ma non tutti hanno un mare attorno che li tenga a galla. In tanti vanno a fondo, in troppi; in tanti di più resteranno a mollo per tutta la vita, tra tempeste e bonacce, senza un orizzonte che ti lasci intravvedere un futuro.
Ma a volte qualcuno si aggrappa a uno scoglio o al braccio teso di una maestra e prova a camminare sulla riva. A volte succede e nessuno lo sa e non è detto che sia un male, perché se non t’importava prima, tanto vale che non t’importi nemmeno ora.
Però è bello sapere che qualcuno ce la fa. Pochi, ma qualcuno ce la fa. Forse per merito di quell’acca attaccata allo O o alla A, o per quella grammatica sgangherata che in qualche modo una maestra è riuscita ad appiccicarti addosso e se ogni tanto salta un congiuntivo ci ridi sopra. E se non ridi, peggio per te.
Qualcuno ce la fa e se lo incroci per strada non temi più. Ce la fa, magari si sposa, si trova un lavoro e diventa uno dei mille milioni là fuori, con in più un’isola tra il passato e il presente e una maestra da passare a trovare ogni tanto, ma quando e per quanto, nessuno lo sa.
Il libro
La grammatica di Nisida, edita da Caracò, è il libro frutto di un progetto di scrittura curato da Maria Franco e realizzato da nove scrittori (Viola Ardone, Luigi Romolo Carrino, Daniela de Crescenzo, Maurizio de Giovanni, Alessandro Gallo, Antonio Menna, Tjuna Notarbartolo, Anna Petrazzuolo, Patrizia Rinaldi) che hanno lavorato a titolo gratuito nelle aule scolastiche dell’Istituto Penale Minorile di Nisida (Napoli), per creare, con i giovani detenuti, altrettanti racconti, ciascuno centrato su una delle tradizionali parti del discorso. I proventi delle vendite andranno a finanziare altre attività di recupero.