Inadeguata e tardiva. A oltre due anni dallo scoppio della guerra in Siria, ecco come appare la decisione americana, annunciata venerdì 14 giugno, di fornire appoggio militare alle forze anti-regime. Dopo la riluttanza dimostrata finora, a far cambiare idea a Washington sarebbe stato il ricorso ad armi chimiche da parte di Damasco. La “linea rossa” che il presidente Barack Obama aveva avvertito di non oltrepassare.
Secondo David Butter, Associate Fellow del Programma su Medio Oriente e Nord Africa della Chatham House, siamo ormai vicini a un intervento militare americano in Siria. «Sembra che, come minimo, gli Stati Uniti forniranno armi e addestramento ai ribelli», ha dichiarato a Linkiesta.
La Casa Bianca non ha fornito dettagli sul tipo di armi che intende mandare all’opposizione. Ma le reazioni alle dichiarazioni di venerdì non si sono fatte attendere. Il governo siriano ha definito “infondate” le accuse di Washington. Mentre il consigliere di Putin per la politica estera, Yuri Ushakov, ritiene poco convincenti le informazioni che, secondo gli Usa, proverebbero l’uso di armi chimiche da parte del presidente siriano Bashar Al Assad.
Anche il segretario generale delle Nazioni Unite ha dimostrato cautela al riguardo. Venerdì Ban Ki-moon ha sottolineato che «qualunque informazione sul presunto uso di armi chimiche non può essere confermata senza prove convincenti sulla catena di custodia». Ban Ki-moon ha anche avvertito che aumentare il flusso di armamenti verso la Siria non favorirà la risoluzione del conflitto. Opinione condivisa anche da Massimiliano Trentin, ricercatore in Storia del Medio Oriente del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna.
Per Trentin fornire armi all’opposizione non farà altro che prolungare il conflitto. «Il sostegno militare ai ribelli potrà solo riequilibrare un rapporto di forza che, in questo momento, sembra essere a loro sfavore». L’esercito di Al Assad ha inflitto un duro colpo ai ribelli almeno tre settimane fa, riconquistando Qusair: la strategica città al confine con il Libano della quale (per oltre un anno) l’opposizione aveva cercato di assicurarsi il dominio.
Dopo Qusair l’obiettivo principale delle forze di Assad è Aleppo, la più grande città della Siria. E Trentin rimane pessimista sulle probabilità di vittoria dell’opposizione. Anche se dovesse ricevere le armi promesse dagli Stati Uniti. «I ribelli non sono in grado di battere le forze armate siriane, a meno che i Paesi occidentali non decidano di intervenire militarmente, magari attraverso la Nato. Ma anche la Nato dovrebbe fare i conti con un esercito impegnato in battaglie sul campo da oltre due anni, e che dispone di sistemi di armamento forniti da Russia e Iran. Armamento il cui effetto deterrente non è affatto da sottovalutare».
Insieme all’invio delle armi, monta il dibattito anche sulla possibilità di imporre una no-fly zone. A riguardo Butter ha confermato a Linkiesta che «certamente se ne sta parlando, però sarà una decisione che verrà presa gradualmente. Al Congresso alcuni pensano che si potrebbe imporre la no-fly zone senza dover entrare nello spazio aereo siriano. Sicuramente si riferiscono alla possibilità di usare i missili cruise per mettere fuori gioco le basi aeree siriane. Ma Obama è stato molto restio ad arrivare persino alla decisione di mandare armi ai ribelli, quindi dovremo aspettare ulteriori sviluppi».
Ben più scettico è Luigi Bonanate, professore emerito di Relazioni internazionali dell’Università di Torino. È prematuro – sostiene – parlare della possibilità di un intervento militare in Siria. «Un intervento che, in ogni caso, sarebbe assolutamente tardivo. Secondo le Nazioni Unite ormai le vittime del conflitto sono oltre 90.000. Mi sembra incredibile che dopo 90.000 morti dobbiamo ancora decidere che cosa fare».
La situazione rimane molto complessa. Anche a causa dell’eterogeneità delle forze anti-regime. In seguito alle dichiarazioni di Obama, l’Esercito Siriano Libero ha chiesto all’Occidente non solo di imporre una no-fly zone, ma anche di fornire missili antiaereo all’opposizione. Richieste che potrebbero avere un impatto rilevante sulle sorti della guerra: sabato 16 giugno le zone di Damasco conquistate dai ribelli sono state pesantemente attaccate dall’aviazione di Assad. E, sempre sabato, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha voluto chiarire la posizione di Mosca riguardo l’eventuale imposizione di una no-fly zone, anche mediante il lancio di missili Patriot dalla Giordania: «Non c’è bisogno di essere un esperto per capire che costituirebbe una violazione del diritto internazionale».
Ma sulla possibilità di dotare i ribelli di armi come i missili antiaereo, Washington non si pronuncia. «Gli Stati Uniti hanno detto molto chiaramente che, appoggiando l’opposizione, c’è il rischio di finire per armare dei gruppi affiliati ad Al Qaeda – ha spiegato Butter – Quindi probabilmente procederanno per gradi, e in ogni caso decideranno di inviare armi per le quali sia molto difficile trovare le munizioni una volta terminato il conflitto».
Secondo il Washington Post, sarà la Cia, fra qualche settimana, a consegnare le armi ai gruppi ribelli, attraverso Turchia e Giordania. E quanto al rischio che le armi possano finire nelle mani di gruppi estremisti, funzionari dell’amministrazione Obama hanno assicurato che l’intelligence ormai conosce la composizione delle forze ribelli. Benjamin J. Rhodes, il vice-consigliere di Obama per la sicurezza nazionale, ha dichiarato venerdì che gli Stati Uniti ora sono in grado di consegnare le armi “nelle mani giuste”.
Per Ban Ki-moon la situazione è molto chiara: «Non esiste una soluzione militare a questo conflitto, anche se il governo siriano, l’opposizione e i loro sostenitori pensano che ci sia. La via militare porta direttamente alla disintegrazione del Paese.»
Sembrerebbe però che la decisione di Washington sia definitiva, nonostante le critiche espresse non solo da Damasco e Mosca, ma anche dalle Nazioni Unite e dagli stessi ribelli. Peraltro il dossier siriano sarà uno dei punti dell’ordine del giorno della prossima riunione del G8, che si terrà lunedì e martedì in Irlanda del Nord. E mentre gli otto potenti del mondo valuteranno se, quando e come intervenire, in Siria si continuerà a morire.