No, ancora Manzoni! Quanti studenti, sbuffando sulle pagine de I Promessi Sposi, hanno pensato: ma questo non scrive niente di interessante. Ovviamente si sbagliavano. Ma non solo perché, nonostante la pesantezza dell’apparato critico, il libro è un capolavoro scritto in maniera fresca e vivace. Ma anche perché la scuola italiana trascura quasi completamente il lato più sconosciuto di Manzoni, quello del profondo conoscitore dell’economia, sostenitore del libero scambio e dell’iniquità di ogni intervento statale e di ogni tassa che tenti di limitare lo sviluppo dei commerci.
Già nel libro, nel dodicesimo capitolo Manzoni esprime tutte le sue opinioni sulla carestia che colpì il Milanese nel 1628: una carestia che «insopportabili gravezze» imposte dal governo spagnolo, resero insostenibile «più dell’ordinario». E quindi si pensava così:
«Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica di averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome di averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abominio della moltitudine male e ben vestita».
Se in questo brano Manzoni si limita a ridicolizzare i teorici del complotto di allora (e nel resto del capitolo descrive gli effetti nefasti del calmiere imposto dal governo spagnolo al prezzo del pane), in un altro scritto invece Don Lisander esprime in modo più chiaro e diretto la sua fiducia nel libero mercato e la sua ostilità a tasse e balzelli.
Statua che ritrae Alessandro Manzoni
Nella seconda metà del 1848, venne presentata al governo austriaco una petizione da parte dei commercianti di Praga contro la possibile secessione del Lombardo-Veneto, perché il territorio era di importanza commerciale strategica per le sorti dell’Impero. Manzoni rimase molto scandalizzato da questa richiesta e così il 15 settembre 1848 venne pubblicato un articolo anonimo sul giornale torinese “La Concordia”. Dopo aver auspicato la fine della dominazione austriaca dalla regione, spiega come invece l’ipotesi della liberazione del Lombardo-Veneto sia in ogni caso vantaggiosa per l’Austria:
«O i legislatori italiani avranno il buon senso di non proteggere l’industria nazionale con proibizioni e con dazi spropositati (che vuol dire assassinare il commercio nazionale, e danneggiare non poco l’industria nazionale medesima): e le merci dell’Impero entreranno col favore delle leggi, a bandiere spiegate, alla luce del sole. Se poi cinquantott’anni dopo la morte di Smith, e non so quanti dopo la morte di Say, e viventi, parlanti, e scriventi Cobden e Bastiat; se nel paese dove più d’un economista prevenne Smith in parti importantissime… quelli che saranno i nostri legislatori staranno fissi in quello sventurato proteggere: allora le merci dell’Impero entreranno malgrado le leggi, col favore del contrabbando, a lume di Luna».
Insomma, Manzoni era ben conscio che la nascente borghesia industriale non dovesse essere tassata. E che se c’è la domanda, certe merci entrano, legalmente o illegalmente. Lui ne era consapevole. E i legislatori italiani di oggi?