Serve un nuovo pensiero economico. La politica capirà?

Ottava edizione del Festival dell’economia di Trento

TRENTO – È stato Michael Spence ad aprire l’ottava edizione del Festival dell’Economia. Tema di quest’anno: “Sovranità in Conflitto”. L’analisi del premio Nobel e presidente della Growth Commission della World Bank, è chiara: «Il ritorno a un percorso di crescita sostenibile sarà lento e la convergenza a livello globale sarà accompagnata da divergenze all’interno dei singoli paesi in termini di occupazione e di reddito. Gestire gli aspetti distributivi del rapido cambiamento tecnologico e della globalizzazione sarà la sfida principale dei prossimi decenni».

Incalzato dal direttore scientifico del festival, il docente della Bocconi Tito Boeri, Spence snocciola dati facendo riferimento a una serie di recentissime ricerche sulle dinamiche che plasmano l’economia globale. Da un lato il ruolo della tecnologia, recentemente oggetto di un ampio report McKinsey, responsabile di una progressiva sostituzione dei compiti di routine sino a oggi affidati non solo a colletti blu ma anche a colletti bianchi con lavori particolarmente ripetitivi. Dall’altro lato gli effetti della globalizzazione che, con l’azione di multinazionali sempre più in grado di sfruttare il caleidoscopio di vantaggi competitivi che caratterizza l’economia globale e che intermediano circa l’80 per cento del commercio globale, sta operando una redistribuzione di opportunità di occupazione e reddito il cui prezzo più alto è oggi pagato in alcuni settori dei paesi avanzati.

Il combinato disposto di tecnologia e globalizzazione nell’ambiente post-crisi ha infatti condotto a un crescente decoupling tra ripresa della crescita e dell’occupazione in quasi tutte le economie avanzate: mentre la prima tende a mostrare segni di miglioramento, in particolare fuori dall’eurozona, la seconda rimane al palo. «Negli ultimi 20 anni, negli Stati Uniti ma anche in Germania e Italia, il settore dei beni commerciabili internazionalmente (settore primario, manifattura, una parte crescente dei servizi) è cresciuto in valore aggiunto ma ha generato pochissimi posti di lavoro. In alcuni casi – come quello italiano – la crescita ventennale del numero di occupati in quel settore è stata addirittura negativa».

Riferendosi ai dati americani, Spence mostra come, dai primi anni Novanta, la crescente forza lavoro sia stata assorbita dal settore delle costruzioni e, ancora di più, dal governo e dalla sanità sostenuta da risorse pubbliche. «Un percorso di crescita che troppo spesso si è basato sulla creazione di nuovo debito e che non appare per nulla sostenibile per il futuro». Il che conduce alla sfida alla sovranità nei termini di una riproposizione del dibattito, che sembrava ampiamente superato a partire dall’adesione dei paesi emergenti e della Cina al Wto, relativo agli effetti dell’apertura al commercio internazionale, mai come oggi responsabile della creazione di perdenti e vincenti – come nella fiumana del progresso di Verghiana memoria.

«Possiamo isolarci da queste forze? Oppure è meglio tentare di adattarsi all’evoluzione costante della catena produttiva globale?». A questa domanda, particolarmente importante per un Paese come l’Italia, risponde il mattino successivo Kaushik Basu, chief economist della World Bank. «Discutere dei pro e contro della globalizzazione è come interrogarsi sugli effetti della gravità. È inutile, poiché la globalizzazione è un fatto compiuto, e con essa occorre fare i conti». La sfida ambiziosa che va messa in campo, secondo Basu, è la necessità di istituire regole globali collettivamente riconosciute, in grado di governare un’economia sempre più globalizzata.

«La diseguaglianza crescente all’interno dei singoli Paesi, e più in generale la divaricazione tra una classe di investitori globali e una di lavoratori locali che non reggono la competizione imposta dal mercato unico dei fattori di produzione, è il più evidente effetto di una mancanza di democrazia e di istituzioni a livello globale. L’inizio di questa cooperazione non può non passare attraverso il coordinamento delle banche centrali». Se fino a qualche tempo fa, infatti, l’assioma unanimemente accettato recitava: «Uno Stato, una banca centrale», oggi bisogna rendersi conto, ragiona l’economista di origine indiana, che viviamo in un singolo sistema economico che richiede, un’azione monetaria perfettamente coordinata.

Della bontà di questo ragionamento è convinto Perry Mehrling, direttore degli Education Programs di Inet, che ne discute venerdì pomeriggio in una conferenza organizzata con la collaborazione della fondazione di Soros. «Scordatevi il G-7 – dice provocatoriamente – quello che conta da oggi è il C-5, ossia l’insieme delle cinque maggiori banche centrali del mondo industrializzato: Banca del Giappone, Banca d’Inghilterra, Federal Reserve, Bce e Banca nazionale svizzera. Mai come nel caso del Quantitative Easing di questi anni le banche centrali mondiali stanno agendo in maniera simile e tutte allo stesso momento».

Il punto, tuttavia, è capire se questo coordinamento possa divenire la principale caratteristica istituzionale del futuro o sia invece destinato a condurre a guerre commerciali attuate tramite leva monetaria – un’ambiguità sottolineata da Basu relativamente all’aggressiva politica monetaria della Abenomics giapponese. «Il tempo che l’azione delle banche centrali ci sta oggi concedendo – spiega Mehrling – non può essere sprecato. Altrimenti tutti i problemi che abbiamo fino a oggi rimandato si ripresenteranno impetuosi nella forma di a una crisi che rimarrà a lungo e potrà avere effetti devastanti». Per fare questo serve un salto di qualità istituzionale, ragionano i tre economisti, in particolare nella governance internazionale. Ma, chiosando con Basu: «Serve innanzitutto un pensiero economico rinnovato, in grado di ragionare sulle implicazioni di questi scenari e di offrire alternative per il futuro». Un pensiero su cui anche Spence e Merhling sembrano essere d’accordo. Ma ci sono policy-makers disposti ad ascoltare?

Twitter: @NicoloCavalli

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