Ci sono due modi per guardare alla vicenda dell’acquisizione di Loro Piana da parte del colosso del lusso francese Lvmh. Il lamento un po’ provinciale per il sacco francese della moda italiana – il brand di cachemire pregiato è l’ultima gemma di una corona che ormai racchiude Gucci, Bulgari, Pomellato, Brioni, Sergio Rossi, Acqua di Parma, Fendi, Bottega Veneta ed Emilio Pucci; il Belpaese come campo di battaglia tra i due campioni rivali Arnault&Pinault, Lvmh&Ppr, coi giornaloni mainstream che stamattina si stracciavano le vesti per un altro pezzo di made in Italy che se ne va. Suoneremo la Marsigliese?, si chiede preoccupato più di un commentatore. Si sa che la lingua batte dove il dente duole perché lo shopping e/o le partecipazioni francesi in Italia da qualche anno sono a tutto campo e spaziano dalla finanza (Mediobanca, Generali, Bnl e Cariparma) alle grandi imprese (Edison e Parmalat), ai trasporti (Alitalia, Ntv), alla grande distribuzione (Carrefour) al settore delle fiere (Parma e non solo).
Poi c’è un secondo modo, secondo noi più costruttivo su cui vale la pena spendere qualche parola, per cercare di capire perchè le nostre imprese, anche chi va bene, ha mercato e buoni prodotti da vendere, sono così vulnerabili allo shopping straniero. Premesso che l’Italia resta un paese che attira troppo pochi investimenti esteri, ce ne vorrebbero molti di più, ci sono almeno tre ragioni alla base di questa debolezza.
La prima. Da ormai parecchi anni abbiamo perso le grandi imprese e chi è rimasto (ad esempio Pirelli), ha preferito giocare con la politica e i salottini più o meno buoni (adesso che sono finiti i soldi non può fare nemmeno quello) o infilarsi (ad esempio Benetton) nel mercato delle tariffe e dei servizi regolati. Siamo via via usciti dalla grande chimica, la farmaceutica, l’elettronica di consumo, l’informatica mentre Fiat oscilla tra la testa (e i ricavi) ormai a Detroit e la vetero ambizione da salotto di una partecipazione forte (non si capisce in che modo strategica) dentro Rcs. Fuori dal nostro asfittico capitalismo dei grandi, ci sono gli ex monopoli (la Telecom indebitata), le imprese di stato sotto l’ombrello del Tesoro o della Cdp (Eni, Enel e Finmeccanica) e qualche gruppo internazionalizzato nei servizi tipo Luxottica o nel food come Ferrero, che però fanno storia a sé. L’eccezione che conferma la regola. Difficile competere su scala globale senza grandi portaerei.
La seconda ragione è che quando abbiamo avuto l’occasione delle privatizzazioni per irrobustire il sistema, negli anni Novanta, l’abbiamo buttata via. Tra il 1990 e il 2006 l’Italia con 137,9 miliardi incamerati e 139 società che passano di mano, è stato il paese europeo che ha dismesso più patrimonio pubblico. Ma dalle spoglie dello stato imprenditore è uscito fuori una sorta di neo monopolio privato, costruito su scatole societarie più orientate al controllo che alla crescita e allo sviluppo internazionale. Così le privatizzazioni all’italiana sono diventate il valzer dei soliti noti.
La terza ragione è che il nostro capitalismo resta essenzialmente un capitalismo istintivo e poco patrimonializzato: c’è l’intuizione originaria del fondatore, la capacità laburista e produttiva, ma non quella successiva di saper industrializzare i processi, terziarizzarsi e sviluppare catene logistico-distributive su cui si fanno i grandi margini. I casi qui si sprecano, lo abbiamo scritto altre volte: abbiamo i migliori mobilieri ma Ikea è svedese; abbiamo inventato la pizza ma la catena mondiale è Pizza Hut; abbiamo il migliore caffè ma lo fa bere a tutto il mondo Starbucks. Sul gelato è lo stesso con Hagen Daz e nel food è paradossale che la più grande piattaforma del made in Italy nel mondo sia la francese Auchan, ovviamente alle sue condizioni. Questo è un problema gigantesco per la nostra internazionalizzazione ed emerge dalle ragioni che hanno spinto i fratelli Loro Piana ad accasarsi con Lvmh. Lo hanno spiegato stamattina al Corriere: con Arnault saliamo su una portaerei che porterà i nostri maglioni in giro per il mondo, un canale distributivo fantastico su e giù per Asia, Usa e Sudamerica. Noi ci mettiamo il brand e la sapienza artigiana; i francesi la capacità organizzativa, la logistica, il know-how industriale e di prodotto nel completare la propria gamma luxury con la lana (dopo il vino, gli orologi, le scarpe e la pelle), mantenendo come già in passato con Gucci e Bottega Veneta presidio, posti di lavoro e filiera produttiva in loco. Che si vuole di più dalla vita?
Ma questo della terziarizzazione è ormai un treno che il sistema paese ha perso qualche anno fa, specie se i nostri imprenditori di successo del ramo, invece che avere la fissa della crescita spendono tempo e soldi per fare altre cose, giocano all’editoria (Della Valle) oppure sono incapaci di concepire un business fuori dall’idea del possesso (gli Armani e i Dolce & Gabbana che ancora oggi controllano il singolo fax che transita in azienda).
In questo senso ieri è stata una giornata plastica e surreale, che dice molto della confusione che attraversa il paese. Mentre il governo Letta s’impiccava sull’Imu, dico l’Imu (è così da due mesi), mentre infuriava la guerra sul salottino Rcs e Diego Della Valle comprava pagine di giornale implorando Napolitano d’intervenire non sappiamo a che titolo a difesa della libertà di opinione, i francesi mettevano sul tavolo 2 miliardi di euro per acquisire l’80% di Loro Piana. Detto fatto. E’ il mercato, bellezza. Già Bulgari lo aveva detto: quando abbiamo deciso di vendere, nessun italiano si è fatto avanti, nessuna grande maison tricolore. Solo i francesi. Quando c’è da tirare fuori i soldi, il braccino dei nostri grandi imprenditori diventa cortissimo e allora diventa inutile piangere lacrime di coccodrillo sui nostri marchi che vanno all’estero. A proposito. Perchè Della Valle sul Corriere non apre il portafoglio e se lo compra invece che scalciare scomposto? Perchè Elkann, se è davvero così strategica, non scala Rcs con i soldi della famiglia invece che usare la cassa di Fiat, che ha mille pendenze con la politica italiana? Funziona così se si vuole davvero innovare.
Siamo dunque spacciati come sistema industriale? Diventeremo colonia? No, non siamo spacciati. E qui è la parte positiva del nostro ragionamento. Ma dobbiamo ripartire da quel che abbiamo (non è poco) e consolidarlo, farlo crescere. Ieri Fulvio Coltorti, storico capo del Centro studi Mediobanca, su Linkiesta ha raccontato da par suo come le nostre medie imprese internazionalizzate, il nostro Quarto capitalismo che finora ci ha tenuto a galla, se la gioca alla pari con i campioni tedeschi, ridimensionando il gap (anche mediatico) che ci divide da Berlino sulla produttività. Possiamo farcela, dice Coltorti, a patto «che la ripresa del mercato interno faccia funzionare a dovere la nostra manifattura, che le banche la sostengano e il governo riesca a spingere le grandi imprese verso qualità, innovazione, made in Italy e flussi esportativi: sono questi i veri segreti della Germania». Insieme ad un sistema paese che deve smetterla di strangolare chi vuole davvero fare impresa.
Allora parliamo di questo invece che incartarci sull’Imu (dico l’Imu). Parliamo di come usare la Cdp, non se debba diventare o meno una nuova Iri ma per aiutare 8-10 medie aziende a diventare nel giro di qualche anno grandi imprese di scala globale, capo filiera per le nostre produzioni del made in Italy nel mondo che cresce, invece che scrivere papelli sui giornali, scomodare il capo dello stato o litigare intorno ad un sacrario, Rcs, che ormai è rimasto un sacrario solo per noi (poveri) italiani…
Twitter: @AlfieriMarco