Le mega navi sono in arrivo. Sono veloci. A differenza della burocrazia e della giustizia amministrativa italiana. Così c’è una enorme possibilità già fra 2 anni di scoprirsi troppo piccoli per ospitarle e vedere trasformata gran parte dei porti tricolore in scali buoni per le chiacchiere all’italiana, ma tagliati fuori dai veri traffici che portano soldi. Al momento il Paese si difende. Ogni anno circa 600 miliardi di euro transitano dai nostri porti sotto forma di merci e materie prime. Di questi più o meno 270 rappresentano il manifatturiero, di cui circa 100 miliardi sono puro made in Italy.
Nonostante tutte le zavorre, gli scali danno un gettito allo Stato di circa 13 miliardi. Tanto. Ma nulla se si pensa che con 1 miliardo di investimenti ne avrebbero resi almeno una ventina. Questo in passato. Ora c’è il futuro. Ovvero, un accordo tra le principali compagnie portacontainer (Maersk, Msc e Cma-Cgm già oggi gestiscono il 40% dei traffici) che mira a economie di scala raggiungibili solo con navi da 16mila container nei porti del Nord Europa e da 13mila nel Mediterraneo. Forse quattro porti italiani potranno accoglierle. Per gli altri declino e nebbia. Dal prossimo anno ci sarà una selezione fisica sulla base di caratteristiche che per i mega carriers diventeranno indispensabili. Profondità delle banchine di almeno 18 metri, e lunghezza almeno compresa tra i 300 e i 400 metri. Disponibilità di bacini di evoluzione in grado di consentire le manovre adeguate. E vicinanza del porto con un mercato di produzione e consumo che possa garantire alle navi giganti un flusso di merce concentrabile in un solo punto. E come direbbe la logica, sbocchi infrastrutturali alle spalle: autostrade o ferrovie dedicate.
Per fare tutto ciò non servono solo soldi. Anzi, paradossalmente, questo è il meno. Serve volontà politica e certezza del diritto. Un limitato intervento della giustizia, soprattutto quella amministrativa, perché una volta presa una decisione nei dieci anni successivi non dovrebbe essere stravolta. Ovvietà, verrebbe da pensare. Eppure all’ordine del giorno ci sono porti bloccati dal Tar per motivi più disparati. Dragaggi fermi. Stop, sequestri e dissequestri. Come racconta l’ultimo caso, in ordine di tempo, a Taranto. Dove non c’è solo l’Ilva.
A fine maggio una delegazione di operatori economici cinesi abbastanza folta è sbarcata a Taranto. In visita al porto c’erano rappresentanti della Shanghai Jinjiang Shipping (società di logistica delegata dall’Autorità portuale di Shanghai), del porto e della Camera di commercio di Shenzhen e di Suzhou. E pure due membri della Chamber of HK Logistics Industry, board di spicco dell’associazione di shipping di Hong Kong. La visita si inquadrava in un accordo di programma con la regione Puglia, ma avrebbe potuto produrre sbocchi interessanti. Peccato che la delegazione «si sia soffermata», scriveva un quotidiano locale, «in particolare sulle aree che dovrebbero essere destinate, oramai il condizionale è d’obbligo, a insediamenti di logistica connessi con l’attività del terminal contenitori».
Le aree erano infatti state messe sotto sequestro una trentina di giorni prima e sbloccate dal Consiglio di Stato soltanto due settimane dopo giusto in tempo per non far saltare del tutto l’adeguamento dell’area polisettoriale per il contenzioso aperto da Terminal Rinfuse. Il Tar di Lecce aveva infatti concesso a maggio la sospensiva al consorzio e bloccato tutti gli interventi legati all’accordo generale di giugno 2012 sul porto. Soltanto a fine giugno si è poi trovato un accordo che ha salvato gli investimenti e previsto il trasferimento di Terminal Rinfuse sull’area della calata quattro. Diciamo che i privati si sono guardati in faccia e hanno capito che il fermo totale avrebbe fatto scappare gli operatori presenti. E procurato un danno da circa 200 milioni di euro, la cifra corrispondente agli investimenti stanziati.
Lo stop di metà maggio dei giudici amministrativi riguardava gli atti dell’Authority di Taranto «in relazione al mancato rinnovo della concessione», ma anche il decreto di nomina di Sergio Prete, attuale commissario dell’Authority. Non solo il niet dei togati era relativo anche all’accordo generale per lo sviluppo dei traffici containerizzati e alla realizzazione delle relative opere. Il che avrebbe imposto subito il fermo dell’intera riqualificazione del molo polisettoriale, per la quale erano già pervenute le offerte, e tutti i dragaggi. Lavori fondamentali per consentire alle mega navi di attraccare. Diciamo che il Tar di Lecce aveva omesso di intervenire solo sul progetto della cosiddetta piastra logistica, un’opera da circa 220 milioni. Un grande nodo di interscambio di merci (da nave a treni o tir) utile se ci sono delle navi in arrivo. Ridicolo se lo scalo non ha più infrastrutture idonee al futuro immediato dello shipping.
Fonte: Invitalia
Ovviamente sarebbe rimasta in piedi anche la questione della mancata riqualificazione, non poco per una città che muore di inquinamento. Non spetta a noi entrare nei termini della sentenza. Sicuramente giusta. Il punto da valutare è il perché i giudici abbiano stroncato gli interventi dell’Authority – effettivamente in contrasto con quanto stabilito in testi pregressi del 2001 e del 1998 – definendoli non supportati dal pubblico interesse. Dovremo aspettare un giudizio dalla storia, quando, se accadrà, i progetti andranno a buon fine. Ora che tutto si è risolto i due mega progetti attorno al porto di Taranto possono, infatti, ripartire. Roba da circa 400 milioni di euro pubblici e un centinaio privati. Una buona notizia? Certo. Ma che ne penserà la folta delegazione cinese che è capitata nel porto mentre il commissario era sospeso dalle sue funzioni? E delle aree polifunzionali non si aveva alcuna certezza? Domande retoriche.
A cui qualcuno cerca di dare risposte, mettendo pure le mani avanti. Il presidente dell’Autorità portuale di Ravenna ha dichiarato giusto a inizio agosto che se non si parte con le opere di dragaggio lo scalo muore e con esso se ne restano senza paga 10mila famiglie. L’idea è completare le prime fasi entro il 2018 ma, per poter procedere, è imprescindibile svuotare le casse di colmata e riposizionare i materiali. «Per almeno 200-300mila metri cubi di fanghi si tratta di un’operazione che va fatta nell’immediato per affrontare un’emergenza a cui stanno andando incontro gli operatori». Tali parole lasciano già intendere corsi e ricorsi al Tar e addio possibilità per lo scalo di rimettersi in regola, magari associandosi con Trieste, per accogliere le mega navi. Non stiamo parlando di casi isolati. Genova, pur essendo tra i porti di punta, vive problemi simili.
Nel 2008 il presidente del porto, Luigi Merlo, aveva riavviato i lavori per le nuove banchine fermate da inchieste e ricorsi accolti dalla giustizia amministrativa, arrivando a sfidare imprenditori restii e la compagnia dei lavoratori. Ma il progetto non è arrivato a termine e a Voltri adesso il concessionario non va avanti se non avrà la certezza delle concessioni (scusate il gioco di parole), chiarezza sui vincoli imposti dalla vicinanza con l’aeroporto e garanzie sul secondo binario. Un lavoro di poco, ma bloccato dal fatto che, dove deve passare il binario, ci sono i piloni dello svincolo autostradale. Svincolo in via di rifacimento, ma bloccato, a sua volta, dai ritardi della Gronda autostradale. «Genova soffre di un sistema di decisioni bloccato» ha dichiarato al Secolo XIX Marco Bisagno, vicepresidente Confindustria con delega al porto, «qualsiasi decisione richiede una trafila infinita».
E quando in un Paese tutto è complicato, si crea la patria del Tar. Così la darsena di Levante di Napoli ha richiesto ben più di un decennio di sfide di carta. Per non parlare dei piccoli porti turistici che nel loro insieme dovrebbero fare Pil, dove le lungaggini non fanno nemmeno notizia. Solo negli ultimi due mesi a finire sotto scacco dei ricorsi sono stati Marsala e Scalea. Il risultato complessivo? «Alcune opere risultano non concluse pur essendo iniziate da oltre dieci anni per un totale di finanziamenti pubblici di quasi 1.500 miliardi di euro», sentenzia la Corte dei Conti a seguito dell’indagine di controllo sulle «Spese per la realizzazione di opere infrastrutturali di ampliamento, ammodernamento e riqualificazione dei porti».
In particolare il 38% delle opere finanziate con leggi 488/1999 (finanziaria) e circa la metà di quelle legate alla legge 166/2002 (collegata alla finanziaria) sono a oggi incompiute. Cantieri inaugurati anche prima del 2000. Il perché è drammaticamente sintetizzato dai magistrati contabili il primo agosto: «Atteggiamenti di sostanziale inerzia o inadeguata capacità gestoria di taluni enti autonomi, il proliferare dei vincoli ambientali, l’ampio contenzioso relativo alle gare d’appalto, procedimenti giudiziari con sequestro di intere aree interessate ai lavori, criticità progettuali e ritardi procedurali nelle fasi di programmazione ed attuazione di infrastrutture pluriennali». Nulla da aggiungere.