Nel mezzo delle dolorose agitazioni del Medio Oriente, il problema più urgente nella testa di Barack Obama è imparare “come l’uom s’etterna”. L’eternità che lo assilla è di natura politica e comunicativa, è l’eternità dei manuali di storia e della “legacy”, come la chiamano gli americani, l’eredità politica che precipita e si stratifica nella memoria collettiva diventando, con un po’ di buona sorte, mito.
Per un presidente americano eternarsi significa diventare icona, trasformarsi da amministratore a epifenomeno di una visione del mondo, diventare portatore di una luce che illumina gli angoli oscuri della storia. L’alternativa non è l’oblio, ma la dannazione. Si tratta di scegliere, in sostanza, fra il modello iperrealista di Nixon e quello immaginifico di Kennedy. In Egitto, e più in generale nel contesto della primavera araba, Obama è stato opaco, ambiguo, si è imbarcato in una prudente navigazione di cabotaggio che s’accorda bene con le ambizioni rimpicciolite dell’America nel mondo dopo la scorpacciata di idee forti dell’era Bush. Ha rivolto lo sguardo alla crisi interna, abbracciando all’esterno il paradigma debole del “leading from behind”, santificazione del multilateralismo dopo tanto unilateralismo americano foriero di impopolarità per i suoi promotori.
Quando è stato costretto dalle eruzioni di piazza Tahrir a prendere posizione, Obama ha scelto di stare dalla “parte giusta della storia”, dunque con i manifestanti e contro il tiranno con il quale l’America aveva stretto importanti – anche se non idealmente gratificanti – patti di stabilità politica. Ha deciso di seguire la strada dell’appoggio ideale, dei valori, della democrazia e della libertà contro i calcoli della Realpolitik; ha deciso di non sporcarsi mani e coscienza facendo compromessi con i cattivi e ha presentato all’elettorato la svolta come una scelta dettata da cristalline ragioni ideali, puro abbraccio dell’autodeterminazione dei popoli oppressi.
In questa prospettiva, il fallimentare governo di Mohammed Morsi non è altro che un effetto collaterale della libertà degli egiziani, da porre rigorosamente in antitesi al vecchio modello dell’esportazione della democrazia manu militari; nella rappresentazione obamiana del mondo da una parte ci sono gli ideali puri da magnificare con l’arte oratoria e l’immagine da leader illuminato dal sole della storia, dall’altra i calcoli cinici da condannare come irredimibili commistioni con il male. Il paradosso è che Obama è arrivato a condannare la logica del calcolo realista in virtù di un altro calcolo. Un calcolo basato sulle rendite d’immagine e sulla capacità di eternarsi. Non ha rigettato del tutto la logica del realismo, ma si è esercitato soltanto nella versione negativa della Realpolitik.
Le decisioni di non intervenire a fianco della piazza iraniana nel 2009 e di non immischiarsi nella guerra civile in Siria sono calcoli riconducibili al puro realismo, ma non danneggiano l’immagine presidenziale come un’attiva intromissione nei meccanismi politici del Medio Oriente. Impegnato a imparare “come l’uom s’etterna”, Obama ha sacrificato la credibilità dell’America come broker internazionale e stabilizzatore di un’area in cui gli equilibri sono saltati, e ora anche i più accesi sostenitori dell’Amministrazione ammettono che le armi del presidente per affrontare il caos egiziano sparano a salve. Anche analisti.
Lesile Gelb, che non fa parte dello stormo dei falchi, suggerisce al presidente di abbandonare la “postura ideale”, turarsi il naso e sostenere la giunta militare di Abdel Fattah al Sisi, attore razionale con cui scendere a patti per legge di necessità. Nel caso egiziano la solita ambiguità tattica ha mostrato il suo prezzo: per coltivare la “legacy” Obama ha lasciato enormi spazi vuoti nello scacchiere, e a riempirli ci ha pensato l’horror vacui della geopolitica, con l’Arabia Saudita che ha messo sul piatto una quantità di miliardi di dollari da far apparire il flusso dei finanziamenti americani improvvisamente ininfluente. Se l’America deciderà di chiudere i rubinetti dell’Egitto i generali non avranno nemmeno bisogno di andare in cerca di altre protezioni, e quella di Obama sarà soltanto una presa di posizione simbolica (e isolazionista). L’aureola kennedyana di Obama sarà intatta, ma il lavoro sporco e necessario dell’influenza in medio oriente saranno altri a farlo.
Twitter: @mattiaferraresi