Obama e lo stillicidio di stragi da arma da fuoco

Usa vulnerabili e l'incubo terrorismo

WASHINGTON– Fort Hood, Binghamton, Tucson, Aurora, Oak Creek, Newtown. Alla lista delle stragi da arma da fuoco durante la presidenza di Barack Obama si è aggiunta Navy Yard, la base della Marina di Washington dove ieri mattina il 34enne Aaron Alexis si è presentato con una pistola e un fucile automatico e ha aperto il fuoco nell’edificio 197. Il bilancio delle vittime parla di tredici morti, incluso l’attentatore, rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia poco dopo l’attacco. Alexis, nato nel quartiere newyorchese del Queens e residente a Forth Worth, in Texas, era un contractor militare che si occupava di sicurezza informatica e aveva servito nella Marina dal 2007 al 2011. Nel 2010 era stato arrestato per aver sparato un colpo di pistola nel soffitto del suo appartamento, probabilmente in modo accidentale. Diversi amici dell’attentatore hanno confermato che si era convertito al buddismo. Non è ancora chiaro se Alexis avesse un documento valido per accedere alla base militare, dove lavorano 16 mila persone, in maggioranza civili, oppure abbia usato il badge di qualcun altro per introdursi nell’edificio. Le autorità parlano di un altro potenziale attentatore, un afroamericano fra i 40 e i 50 anni con un’uniforme in stile militare, mentre un terzo sospetto individuato inizialmente è stato derubricato dalla lista dei ricercati.

“Un’altra strage”, un altro “atto vigliacco”, ha detto Obama in una breve dichiarazione a margine di un evento sulla ripresa economica. Lo ha detto con la voce affranta di chi ha visto troppi massacri sul suolo nazionale. E questa volta la furia ha colpito l’America al cuore. L’edificio in cui è avvenuto il massacro è a quattro chilometri dalla Casa Bianca; il Congresso, rimasto chiuso per alcune ore per ragioni di sicurezza, è praticamente dietro l’angolo. Le parole di Obama intercettano il sentimento di esasperazione di una nazione che si ritrova a contare le vittime dei massacri con impressionante frequenza. In questi anni l’America ha visto un’altra strage in una base militare, quella di Fort Hood, dove il maggiore Nidal Hasan, uno psicologo militare imbevuto di precetti dell’islam radicale, ha aperto il fuoco sui colleghi gridando “Allahu Akbar”. Il mese scorso la corte marziale lo ha condannato a morte dopo un processo in cui l’imputato non ha fatto nulla per evitare una sentenza che per il “soldato di Allah”, come si definiva nel biglietto da visita, è la porta d’accesso al martirio. L’America ha pianto le vittime della furia insensata del Colorado, che ha colpito gli innocenti spettatori di un cinema di periferia, e si è imbattuta nel dolore indicibile di Newtown, dove a finire sotto le pallottole di un’arma semiautomatica sono stati i bambini di una scuola elementare e i loro insegnanti.

Terrorismo, follia, rabbia: il male si è fatto largo sul suolo americano in molte forme, e la costante è l’uso delle armi da fuoco, il cui possesso è tutelato da un emendamento costituzionale. Non è ancora chiaro il movente di Aaron Alexis e del suo eventuale complice, ma lo scoramento di Obama deriva anche dalla battaglia legislativa per il controllo delle armi da fuoco affossata dal voto dei repubblicani. E’ inevitabile che dopo l’ora del lutto e delle indagini, la disputa sulle leggi che regola il possesso delle armi ritorni sulla scrivania del presidente e nelle conversazioni degli americani, stanchi di una terrificante consuetudine con la morte maturata in decenni di stragi che colpiscono ovunque, dalle periferie solitarie e pazze fino a una delle installazioni militari più sicure d’America.

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