Pazienza finita, ora Bruxelles striglia Letta

L’audizione del commissario Rehn

«Mi aspetto che l’Italia prenda nuove misure fiscali». Le parole di Olli Rehn, commissario Ue agli Affari economici e monetari, risuonano in modo pesante al Tesoro. Bruxelles non nasconde più il suo disappunto per la situazione dei conti pubblici italiani. Fa paura il possibile sforamento del rapporto deficit/Pil, il cui limite è fissato al 3 per cento. L’incontro fra Rehn e il ministro delle Finanze Fabrizio Saccomanni è stato più gelido del solito. Il commissario Ue ha usato toni duri e avrebbe invitato Saccomanni a dispensare meno ottimismo rispetto a quanto fatto finora. Meglio lavorare con un basso profilo, adottando le riforme strutturali con cui Roma si è impegnata, tralasciando il chiacchiericcio politico. In pratica, tutto il contrario di quanto fatto finora.

Programmato da tempo, atteso da molto, finalmente è avvenuto. Olli Rehn ha incontrato le autorità italiane e il titolare del Tesoro per fare il punto su cosa è stato compiuto e cosa no, specie in vista di un autunno che si preannuncia torrido. La situazione dei conti pubblici italiani è quella di sempre. Alto debito e crescita anemica sono una costante che, se unita a fragilità politica, carenza di competitività, lacune nell’attrazione degli investimenti esteri, può portare l’Italia al punto in cui era due anni fa. Le stime di primavera della Commissione europea vedono una crescita del Pil dello 0,7% nel 2014, a fronte di una contrazione dell’1,3% nell’anno in corso. Il deficit è dato al 2,9% del Pil per il 2013 e al 2,5% nell’anno successivo, mentre il debito sarà al 131,4% del Pil a fine anno e toccherà un picco del 132,2% nel prossimo. Una cifra, quest’ultima, che è contenuta anche nella bozza del Documento di economia e finanza (Def) che il Tesoro si appresta a presentare, dopo una revisione peggiorativa delle stime. Come spiegano diverse fonti del Tesoro a Linkiesta, la preoccupazione maggiore riguarda due punti: il deficit e il debito. Non intimorisce la presenza dell’Italia sui mercati obbligazionari, data la presenza della Banca centrale europea (Bce) che funge da guardiano. Piuttosto, fanno paura la dinamica di spesa pubblica e le possibili meno entrate rispetto alle previsioni.

«La cancellazione dell’Imu è una fonte di preoccupazione». Rehn non ha celato che il vincolo elettorale messo dal Pdl sulla tassa sugli immobili possa essere un boomerang per il Paese. A rischio c’è la permanenza dell’Italia nel girone dei virtuosi del deficit. In altre parole, il governo deve trovare al più presto una copertura per i circa 4 miliardi di euro dell’Imu. Nel mirino di Bruxelles c’è la Service tax, che nel 2014 prenderà in gran parte il posto dell’Imu. «Attendiamo dettagli e possibili previsioni», dicono gli sherpa di Rehn. Ma oltre a questo, c’è un velato pessimismo sulla congiuntura. «Mancano misure per il rafforzamento della crescita», spiegano dallo staff di Rehn. E la pazienza sta per finire. La pax montiana, poi continuata da Enrico Letta, è forse destinata a finire prima del previsto. Con essa, lo è stato detto senza troppi giri di parole, potrebbe riaperta la procedura d’infrazione per deficit eccessivo, chiusa pochi mesi fa tra l’entusiasmo delle autorità italiane.

Quali misure devono essere adottate? Quelle di sempre, secondo Bruxelles. Dalle liberalizzazioni alla ricerca di una maggiore competitività dei mercati interni, passando per la dismissione di asset non strategici e la riduzione della spesa pubblica. Tutto quanto iniziato a cavallo di 2011 e 2012, quando lo spread fra Btp decennali e Bund di pari maturity, al massimo dall’introduzione dell’euro, rappresentava il maggior incentivo per le riforme strutturali di cui necessita l’Italia. In particolare, Rehn ha ribadito che «la vendita degli immobili pubblici potrebbe aiutare l’Italia a ridurre il suo debito». Ma Roma deve fare in fretta e non farsi condizionare dall’instabilità politica. «Servono investimenti, serve uno sforzo maggiore, specie nella capacità di attrazione dei capitali esteri», avverte Bruxelles. Anche perché il tempo a disposizione dell’Italia sta per finire.

Ci sono poi le banche italiane, impegnate in un deleveraging che sembra essere più impegnativo del previsto. Secondo Rehn non ci sono esigenze particolari per gli istituti di credito del Paese, nonostante la corsa dei Non-performing loans (crediti dubbi, o Npl) non si sia ancora arrestata. Attualmente, secondo i calcoli della Banca d’Italia, i Npl in pancia alle banche italiane valgono circa 260 miliardi di euro. Tanti, troppi. Soprattutto se si guarda oltre, quando cioè dovranno essere adottati gli standard di Basilea III. I calcoli di Morgan Stanley vedono, nella classifica delle dieci banche europee peggio capitalizzate, due istituti italiani: Monte dei Paschi di Siena e Banca Popolare di Milano. Il capitale Core tier 1, cioè il patrimonio di base in rapporto alle attività ponderate al rischio, di Mps è oggi del 4,6%, ma passerà al 5,2% nel 2014 e al 5,4% nel 2015. In salita, seppur di poco, quello della Bpm, che passerà dall’attuale Ct1 del 7,8% al 7,9% nel 2015. Adeguatamente capitalizzate sono invece le due big, UniCredit e Intesa Sanpaolo. In miglioramento quello di Mediobanca, che ha oggi comunicato di avere un Ct1 dell’11,7% e di aver completato il proprio processo di deleveraging. Anche su di loro, tuttavia, c’è l’occhio di Bruxelles. «La dinamica dei crediti dubbi è in divenire e serve un costante monitoraggio», spiegano a Linkiesta fonti della DG Ecfin della Commissione europea. Il peggio, insomma, non è ancora passato.  

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