Il 16 settembre è stata diffusa dal Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica la nota tecnica dal titolo “Ipotesi di allocazione dei fondi strutturali 2014-2020 per obiettivo tematico e risultati”. La nota, al momento oggetto di discussione e negoziazione in particolare con le amministrazioni regionali, offre alcuni elementi per delineare un primo scenario di politica economica che interesserà il prossimo periodo di programmazione dei fondi strutturali al netto di tutte le difficoltà e le contraddizioni di quello attuale 2007-2013.
Si tratta di importi ancora provvisori, sebbene ufficialmente comunicati dalla Commissione europea alle Autorità italiane, ma quello che si evince dovrebbe far riflettere. Si legge nella nota: “A fronte di un totale Italia di 29.201 milioni di euro a prezzi 2011, le regioni più sviluppate riceveranno 6.972 milioni di euro, le regioni in transizione 999 milioni di euro e le regioni meno sviluppate 20.236 milioni di euro (al netto delle risorse destinate alla cooperazione territoriale, pari a 995 milioni di euro). L’importo assegnato all’Italia (al netto della cooperazione territoriale) sarebbe così complessivamente equivalente nel 2014-2020 a quanto assegnato nel ciclo corrente (2007-2013), sebbene molto superiore (+2 miliardi di euro, circa il 40% in più dello scorso ciclo) per le regioni più sviluppate corrispondenti al Centro-Nord e inferiore sia per le 3 regioni in transizione (-350 milioni, circa il 26% in meno) e sia per le 5 regioni meno sviluppate (-1,4 miliardi, circa il 6,5% in meno) che complessivamente corrispondono al Mezzogiorno”.
In sostanza, considerando le quote di cofinanziamento nazionale, alle regioni più sviluppate andrebbero circa 4 miliardi di euro di risorse complessive in più e alle regioni meno sviluppate 3 miliardi di euro in meno. Cosa sta succedendo? Le politiche di coesione finanziate con i fondi strutturali non erano politiche redistributive finalizzate a rimuovere le disuguaglianze di sviluppo, incrementare le opportunità di crescita e inclusione sociale dei cittadini e promuovere la coesione economica fra i territori (art. 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea)? Certamente sì, ma quello che è passato due anni fa in Europa, e si sta rivelando ora in Italia, è il principio dello “sviluppo senza soldi”, almeno per le regioni che finora hanno speso poco, male e lentamente.
Si è passati quindi da una logica del ritardo acclarato nella spesa, con conseguente dirottamento delle risorse su altri programmi o peggio il ritorno a Bruxelles, a quella della preventiva ipotesi di ritardo e, pertanto, appare meglio non intrappolare risorse presso realtà amministrative riconosciute come non adeguate. Inoltre, al depauperamento di risorse alle regioni meno sviluppate già a monte, farà eco anche quella sorta di commissariamento derivante dai Programmi operativi nazionali a regia ministeriale perché andranno a pescare sempre sulle risorse delle regioni meno sviluppate. Ma questa sarà solo una questione di potere tra enti (cioè chi gestirà più risorse); il saldo netto per le regioni del sud rimarrà comunque negativo rispetto al precedente periodo di programmazione.
Si pongono, quindi, almeno tre questioni. Una di politica economica, per cui la manovra di “affamare la bestia” sembrerebbe poter dare risultati migliori di quelli del foraggiarla. Una di politica pubblica, dalla quale emerge non solo una certa debolezza delle amministrazioni regionali del Mezzogiorno nel negoziato ma soprattutto di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia. Una di politica di sviluppo, per cui affiora con chiarezza che se ripresa ci sarà questa non potrà che ripartire dalle regioni più sviluppate e pertanto verso di loro vengono indirizzate più risorse economiche. È la vittoria dei paesi del Nord Europa che sembra essere stata accettata, con relativo combattimento, da parte di molti governi del mezzogiorno del Mediterraneo e non solo. La vittoria di chi pensa che dopo più di vent’anni di politiche strutturali i progressi economici dei paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) appaiono molto poco evidenti, anzi restituiscono paesi sull’orlo della bancarotta.
Guardandoci in casa, poi, anche all’occhio più distratto si palesa la percezione di un pericoloso segnale di abbandono di un pezzo del Paese che non può e non deve essere giustificato da un rimando ad una sorta di ineluttabile negoziato comunitario contro il quale nulla si è potuto. Un abbandono per stanchezza, sfiducia nelle possibilità del Mezzogiorno e/o nelle istituzioni e nella classe dirigente meridionale, o forse per calcolo grossolano che sicuramente una certa parte del Paese si è fatto. Deve far riflettere che una delle rare indicazioni strategiche di politica economica presente in questa nota “prevede innanzitutto di indirizzare il più possibile le risorse della prossima programmazione comunitaria verso interventi che in modo diretto e indiretto contribuiscano al rafforzamento della capacità dei territori di esprimere attività economica di mercato e di cogliere opportunità derivanti dall’orientamento della domanda internazionale…” come se l’Italia fosse fuori da un grande mercato comune/interno che si chiama Europa e che vi fosse ancora la leva del cambio ad agevolare le esportazioni.
Ma soprattutto come se non si sapesse dai dati di monitoraggio, forniti con precisione dal Dps attraverso OpenCoesione, che nell’ambito del Fesr, un progetto su dieci attuato da operatori privati e imprese ha un costo rendicontabile inferiore ai 5.000 euro ed un progetto su due, sempre attuato dai privati, non raggiunge i 50.000 euro. Allo stesso modo non si può non tener conto che degli oltre 2.600 comuni beneficiari dei Programmi operativi regionali Fesr per il ciclo 2007-2013 il 63% risulta ancora specializzato nel settore economico primario ed il 46% è di piccole dimensioni demografiche, non superando la soglia dei 5.000 abitanti.
E allora vale ricordare che al 31 maggio 2013 il Piemonte e il Lazio erano le uniche due regioni italiane a non aver raggiunto il target di spesa, così come il Programma operativo nazionale ricerca e competitività. E non che i ministeri facciano molto meglio delle regioni meridionali registrando, infatti, difficoltà nella programmazione che si traducono in un buco del 60,5%: mancano ancora più di 7,5 miliardi di euro di spesa per raggiungere la dotazione finanziaria complessiva dei Programmi operativi nazionali e interregionali del Fesr e del Fse 2007-2013, che cuba oltre 12 miliardi di euro. Il buco supera infatti il 75% della dotazione totale del Programma nel caso del Poin Attrattori Culturali, Naturali e Turismo (già depotenziato) e del Pon Reti e mobilità, e raggiunge il 60% nel caso del Poin Energie Rinnovabili e Risparmio Energetico.
La politica di coesione è una politica nazionale; una politica che dovrebbe essere aggiuntiva rispetto alla politica economica ordinaria di un Paese, che si è ridotta ormai da tempo alla sola politica di bilancio. E d’altra parte, le politiche di programmazione negoziata dell’ultimo decennio sembrano sottolineare come, in assenza di una chiara politica di sviluppo nazionale, prima ancora che di una politica per il Mezzogiorno, l’autonoma ricerca di coordinamento fra i diversi attori interessati non ha invero spinto verso forme di innovazione istituzionale, quanto piuttosto verso l’affermarsi di una varietà di modi più o meno informali di cooperazione politica (patti, assemblee, consulte, comitati e poi ancora accordi, protocolli, intese, ecc.. ) che di certo non hanno semplificato i processi decisionali né, tantomeno, migliorato le performance del Paese in termini di crescita economica. Anzi, è emersa una volta di più la necessità che, in un contesto di crescente problematicità e globalizzazione, la rappresentanza dell’interesse collettivo sia sì affidata a forme istituzionali più allargate e dai confini più fluidi, ma dove i diversi attori si raccordino (e si riconoscano) a monte delle scelte strategiche invece di confrontarsi con scarsa efficacia sistemica a valle.
E pensare che era stata esplicitata da subito nel documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2014-2020” elaborato dal ministro per la Coesione territoriale d’intesa con i ministri del Lavoro e delle politiche sociali e delle Politiche agricole, alimentari e forestali una opzione strategica “Mezzogiorno” di cui sembra essersi persa traccia, non solo nei numeri ma anche nei fatti. E pensare, ancora, che sempre in questo documento ci si era appellati a forti innovazioni di metodo che, di fatto, restituisco al momento un documento programmatico/propositivo per l’allocazione dei fondi strutturali 2014-2020 con una opzione Aree interna, una opzione Agenda urbana, 11 obiettivi tematici e 66 azioni/risultati attesi. E siamo solo all’inizio, sebbene tra poco più di quattro mesi si potranno già impegnare le nuove risorse 2014-2020 con quasi 30 miliardi di euro della vecchia programmazione ancora in pancia.
*Direttore del Centro Documentazione e Studi Comuni Italiani Anci/Ifel