Il candidato favorito alla segreteria del Pd, Matteo Renzi, inizia le diciotto pagine del suo documento congressuale dal titolo Cambiare Verso costatando che la classe dirigente del Pd, anziché dimezzare il numero dei parlamentari, a forza di predicare un partito “pesante” invece che “leggero” ne ha creato uno “gassoso… che ha visto l’evaporazione degli iscritti”.
Eppure è difficile evocare un diverso stato della materia di fronte alla lettura della sua evanescente proposta programmatica, in particolare sull’economia. Impossibile, per chi ricorda il bel dibattito per la premiership di un anno fa, ricco di spunti magari generici ma certamente innovativi, anche nel linguaggio, negare la delusione per una così sconfortante assenza di contenuti.
Che cosa è cambiato? In parte la platea, che oggi è inprimis fatta dai tesserati Pd radicati principalmente, come ricorda lo stesso Renzi, nel pubblico impiego e tra i pensionati. Inoltre, partire favoriti induce alla prudenza, confidando nel fatto che basti evitare i messaggi dirompenti ed i voti arrivano comunque. Un po’ alla Bersani di un anno fa, insomma. Soprattutto quando si parla ad una base che ti ha a lungo percepito come un infiltrato.
Ma è evidente come questa strategia contrasti con la volontà di “recuperare consenso in tutte le direzioni: centrodestra, Grillo, astensioni” e a questo proposito non siamo sicuri che l’innegabile abilità comunicativa possa bastare. Ciò che manca è soprattutto una diagnosi del malato Italia, senza la quale è difficile argomentare una prognosi. Perché da un paio di decenni l’Italia perde terreno? Siamo di fronte ad una crisi di domanda, oppure ad una perdita complessiva di competitività? O forse il problema è l’obsolescenza della nostra struttura produttiva e il suo allontanamento dalla frontiera tecnologica? Non è dato capire quale sia la visione di Renzi, pertanto le ricette accennate qua e là su diverse tematiche perdono di coerenza, soprattutto in un contesto in cui la limitatezza delle risorse non permette indecisioni nell’individuazione delle priorità.
Prendiamo l’Europa. Dopo aver assicurato, correttamente, che il Pd deve garantire che l’Italia metta a posto i conti non perché ce lo chiede l’Europa, ma “perché ce lo chiede la serietà verso il destino dei nostri figli e dei nostri nipoti”, Renzi critica il limite del 3% nel rapporto deficit pubblico/Pil, definendolo “anacronistico”, e richiamando la necessità di “un nuovo e credibile sistema di vincoli che sia al passo coi tempi”. Benissimo, quale? Per la Bce auspica invece la “progressiva equiparazione […] a vero e proprio custode della moneta unica”! Semmai si può imputare alla Bce di custodire solo la moneta unica, certo non di essere distratta da altri obiettivi.
Anche i commenti sulla nostra struttura produttiva non vanno oltre le ovvietà: dobbiamo puntare sulla “bellezza delle città e del paesaggio”, combattere la contraffazione dei nostri prodotti alimentari, coordinare meglio la promozione turistica, investire sul Sud non a pioggia ma concentrandoci “sui fattori a lungo termine della crescita”.
Perfino sulla spesa pubblica il programma è insolitamente cauto ed il vocabolario controllato rispetto al passato: non si parla più di ridurla ma di “modificarla … garantendo più diritti a chi non ne ha”, salvo un accenno al contributo di solidarietà sulle mitiche pensioni d’oro.
La scuola e il lavoro sono fra i pochi temi sviluppati con ampiezza. Dopo aver fatto notare che il partito che fu degli insegnanti riceve ormai solo il 43% dei consensi da questo gruppo, Renzi analizza il recente passato secondo la strana ottica per la quale si sono fatte riforme contro i professori, da lui espressamente definiti come “chi vive la scuola”. È vero che i professori sono importanti stakeholder del sistema scolastico, ma basterebbe un minimo di buona volontà per osservare che chi si è spesso opposto a riforme più incisive su valutazione, merito, flessibilità salariale e autonomia didattica sono stati proprio quegli insegnanti che Renzi vorrebbe in massa nel Pd, per evitare che lasciati soli “siano loro a subire le riforme”.
Che ruolo ha chi vive la scuola dall’altra parte della cattedra, ma non è nemmeno citato se non in due sbrigative linee: gli studenti? Di certo contavamo su un accento più marcato su di loro, le vere vittime delle (non) riforme, che spesso si ritrovano con un bagaglio culturale inadeguato rispetto a quanto richiesto da un’economia moderna – è cronaca recente l’indagine Ocse che pone l’Italia come fanalino di coda in termini di comprensione del testo e di utilizzo della matematica. Una parola per loro, sebbene forse non elettori – sarebbe ben accetta. In più non c’è traccia programmatica precisa, se non la professione di buona volontà, di aumentare gli stipendi (i numeri Ocse vedono il salario medio degli insegnanti a un livello inferiore alla media dei paesi più sviluppati). Mala vera anomalia sta in realtà nella totale mancanza di variabilità dei salari dovuta alle capacità o al merito, nell’appiattimento salariale di carriera spesso dominata dall’effetto anzianità e non da risultati tangibili.
Sulla questione lavoro il testo congressuale è forse più corposo e contiene proposte specifiche meglio valutabili. L’analisi renziana parte dalla costituzione, che come si sa pone il lavoro come fondamento della nostra Repubblica, per poi constatare giustamente che il Pd si è alienato gran parte del voto dei lavoratori.
Suona però strano lo spunto molto conservatore sull’appoggio da dare a chi investe nella propria impresa e non in finanza, poiché il “lavoro” sarebbe creato nel primo caso ma non nel secondo. Cosa significa questa affermazione da un punto di vista strettamente economico?Il flusso di investimento verso una impresa X, cui corrisponde formalmente un titolo di proprietà chiamato azione Y, o di debito chiamato Z, non è meno creatore di impiego di qualsiasi altro tipo di investimento diretto, almeno in astratto. Il proposito di Renzi non ha alcun significato economico serio, se non quello di suonare familiare alle corde di un partito che vede la finanza come fumo negli occhi. Pensavamo Renzi si battesse per superare certi tabù della sinistra.
Le proposte specifiche sul tema lavoro si concentrano sui centri per l’impiego da riformare, e questo è un bene, con riferimenti precisi all’inefficienza del servizi di collocamento pubblico italiano paragonato a quello di altri paesi della Ue. Ciononostante, è utile ricordare che in contesto recessivo, quando diversi disoccupati competono per pochi posti di lavoro, la sola riforma dei centri dell’impiego non basta per creare occupazione. È necessaria per motivi che hanno più a che vedere con aumento di produttività e efficienza di lungo periodo, non certo con lo stimolo alla domanda di lavoro nel breve.
Nel testo l’unica fonte di nuovi impieghi viene lasciata genericamente ricadere su incentivi alle assunzioni con contratti a tempo indeterminato di giovani da parte delle imprese. È una via più volte perseguita dai recenti governi, che ha sortito pochi risultati tangibili. Una situazione che vede il tasso di disoccupazione giovanile costantemente quattro volte più alto di quello degli adulti dal 2000 in avanti, al netto degli effetti del ciclo economico sul livello dei due tassi, merita forse una riforma più radicale della protezione all’impiego e del mercato del lavoro in generale.
Sul versante relazioni industriali il testo di Renzi, per quel che riguarda i sindacati dei lavoratori e padronali – che dovrebbero essere obbligati a rendicontazione – suona più come un messaggio interno alla CGIL che una misura pratica che abbia qualche effetto tangibile di breve periodo. Non c’è alcun riferimento a possibili nuove leggi sulla rappresentanza o a una riforma accompagnata dalla politica – se non proprio imposta per legge – del sistema di contrattazione la cui inefficienza è sotto gli occhi di tutti.
Per finire, lo spazio che il programma di Renzi dedica allo sviluppo tecnologico è limitato a poche righe in cui ci si impegna a dare “attenzione ai nuovi settori, Internet ha creato 700.000 posti di lavoro negli ultimi 15 anni, ma sembra ancora un settore riservato agli addetti ai lavori”. Vista la trappola in cui si trova l’Italia, fatta di lavori a bassa qualifica richiedenti scarsi livelli di conoscenza, la considerazione data a questo settore appare un po’ scarsa. Servono proposte concrete per cambiare gli incentivi sottostanti e mettere in moto un circolo virtuoso che permetta di recuperare il tempo perso rispetto ai paesi che giacciono sulla frontiera tecnologica più avanzata, in cui anche i congressi di partito sono grandi incubatori di idee e non solo uffici di rassicurazione di massa.
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