Democristiani. La ditta immortale che ha battuto Silvio

Seconda repubblica sconfitta dalla prima

Abbandona Palazzo Madama cercando rifugio in un sorriso, in un motto di spirito capace, chissà, di occultare e forse persino d’esorcizzare la sconfitta. E così, Silvio Berlusconi, in un lampo, sulla porta di legno che separa l’Aula del Senato dai corridoi affollati di cronisti, per un attimo, sembra ancora il giovane seduttore d’un tempo.

Circondato dai taccuini famelici, Berlusconi ammette di aver fatto una capriola votando la fiducia a Enrico Letta, un colpo di teatro, lo confessa, «certo», dice, «ma di che vi stupite?». Ed è con un sorriso ribaldo, quasi canzonatorio, che prima di allontanarsi recita ancora una volta, e potrebbe essere l’ultima, il ruolo del ragazzaccio. «Che vi credevate? Io è dal mondo dello spettacolo che vengo». Ma la fantasia e la facezia di questo anziano Cavaliere incapace ormai di domare i suoi tanti cavalli, che si chiamano Alfano e Lupi, Quagliariello e Cicchitto, è soltanto un vecchio trucco di scena, gioco d’esperienza, il fumogeno lanciato per occultare un disastro, una nebbia misericordiosa, l’esorcismo, appunto, dell’uomo che nel 1994 scese in campo per sostituire e superare la democrazia cristiana e l’intera impalcatura partitocratica.

L’uomo che invece, oggi, nel 2013, è stato battuto dal suo Delfino democristiano (Alfano), dal suo presidente del Consiglio democristiano (Letta) e da un anziano presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in Italia è l’ultimo dei vecchi comunisti. La seconda Repubblica sconfitta dalla prima.

E non sono pochi quelli che nella rotta di Berlusconi hanno intravisto la fine della Seconda Repubblica. «Adesso un pezzo del Pdl e del Pd stanno insieme, ma per davvero», e lo sguardo di Dario Franceschini, mentre pronuncia queste parole, s’illumina come d’una visione, chissà, futura, prossima: lui, Letta, Alfano, Maurizio Lupi, Beppe Fioroni, tutti cresciuti nella vecchia Dc, e destinati forse un giorno non lontano a ritrovarsi sotto le stesse insegne. Gli uomini del governo vivono ore d’eccitazione nervosa, forte è infatti la sensazione di aver vinto, di avercela fatta. Sanno di aver resistito al carisma e alle manovre di Berlusconi e sanno, soprattutto Letta, che la stessa meccanica, la stessa sfida tesa, presto potrebbe esplodere identica, simmetrica, ma dentro il Pd, con Matteo Renzi al posto del Cavaliere. Ma nel governo, che adesso è più forte, raddrizzato come la Costa Concordia, sono certi di poter vincere ancora.

Enrico Letta, come dicono in queste ore a Palazzo Chigi, ha ormai trasformato il suo governo in un patto sociale e anagrafico tra un personale politico trasversale, diffuso nel centrodestra come nel centrosinistra, una consanguinea umanità. Quello che si è consumato ieri non è semplicemente un fatto politico, ma una novità di sistema. Liberi da Berlusconi, quelle seconde file che il Pdl aveva prestato al governo sono oggi improvvisamente diventate, da comprimari che erano, attori protagonisti, figure autonome. Alfano non è più l’uomo del quid, l’assistente particolare di Berlusconi prestato al governo delle larghe intese, ma è davvero il vicepremier, il partner e il socio di Letta. E dunque il presidente del Consiglio, che vuole durare, che adesso punta al 2015, lui che vorrebbe trasformarsi nel Merkel italiano, sta proteggendo questo suo stabile investimento.

È Letta, più di chiunque altro, a non volere che Alfano costituisca un gruppo parlamentare, e un partito, autonomi. Non vuole una guerra a destra e non vuole soprattutto aver a che fare con un Berlusconi, pur ammaccato, ma libero di navigare corsaro all’opposizione e di menare fendenti. Il premier, felpato e abile, spinge dunque Alfano a conquistare tutto il Pdl, dall’interno, conservando persino – in un mauseleo, se necessario – quel che resta del Cavaliere, monumentalizzato e reso inoffensivo.

A Letta non serve una piccola pattuglia di «responsabili», un manipolo di sbandati, di straccioni di Valmy. A quest uomo paziente e meticoloso serve un contrafforte solido. Letta ha fortissime ambizioni e vuole un sodale muscoloso, un vero socio, un compare capace di garantirgli i numeri per avviare riforme di rango costituzionale. E, chissà, anche per disegnare il profilo, ancora lontano, d’una nuova Balena Bianca. Dopo vent’anni di spasmi e contrazioni violente, di Manipulite e di Berlusconi, di Bossi e di Di Pietro, in Italia rispunta implacabile la voglia di una Dc, magari più miserabile dell’altra, ma che garantisca almeno le piccole tranquillità quotidiane.

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