Shutdown: la sconfitta di successo di Ted Cruz

Il compromesso sul bilancio americano

«Quello che ha fatto Ted Cruz è una disgrazia nazionale, ma devo ammettere che in un certo senso mi è piaciuto». La sintesi di Henry Blodget, direttore di Business Insider, è perfetta. Ed è perfetta perché coglie l’essenza del capitano della corrente massimalista dei repubblicani così com’è percepita dal suo popolo, un’essenza che non è perimetrabile in una strategia né misurabile in termini di vittoria o sconfitta di battaglie politiche particolari.

«In un certo senso mi è piaciuto» è un’esclamazione che apparentemente non si addice al giorno in cui i repubblicani hanno perso una battaglia esistenziale, il giorno in cui si sono piegati a davanti alla migliore preparazione dell’avversario e per manifesta superiorità tattica hanno dovuto abbandonare i sogni di una delegittimazione – o di un congelamento, una dilazione, qualsiasi cosa – della riforma che è l’incarnazione legislativa dello spirito progressista di Barack Obama, l’Obamacare.

Ai punti i repubblicani hanno perso, e hanno perso male. Sono arrivati in fondo alla doppia battaglia su shutdown e default sfrangiati come un esercito in ritirata, divisi in correnti fratricide e dunque esposti alla maggiore capacità d’impatto dei democratici. Cruz, leader degli intransigenti, non solo non ha fatto marcia indietro nemmeno mentre lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, dava indicazione ai suoi di votare il compromesso raggiunto al Senato (assai indigesto in zona Tea Party), ma ha continuato fino all’ultimo ad accusare «l’establishment di Washington che non ascolta il popolo». E quando dice «establishment», parola carica di pregiudizi negativi, Cruz pensa esattamente a Boehner, manutentore di un partito sprofondato in una crisi d’identità apparentemente irrimediabile. E pensa ai suoi sodali al Senato che si sono accoccolati dietro le insegne deboli del negoziatore Mitch McConnell, che ha teso la mano al nemico giurato Harry Reid pur di portare a casa un risultato da rivendere come emblema del compromesso, della funzionalità, della stabilità, della responsabilità e di altre virtù che mandano in sollucchero i cultori delle larghe intese.

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Cruz aderisce a un altro paradigma politico. Il senatore del Texas non abbandona il campo nemmeno quando la sconfitta è certa, questo è il messaggio che manda alla sua America. In queste settimane hanno detto che Cruz è un terrorista, un pazzo, un estremista, un piazzista, un tribuno, un incantatore dei serpenti raffigurati sulle bandiere del Tea Party con la scritta «don’t tread on me» e molte altre cose ancora. La sua frangia è stata snobisticamente bollata come la solita banda di trogloditi anti-tutto, gli sciroccati con i costumi d’epoca che gridano contro il «big government» e anche contro il government e basta. 

Forse sono giudizi dal respiro un tantino corto. Perché l’America che Cruz rappresenta esiste. Al momento non è maggioritaria e tutti i dati demografici ricavati dall’ultima tornata elettorale e dal flusso continuo di sondaggi dicono che non ha alcuna speranza di diventarlo, ma esiste, ha potere negoziale ed è in cerca di un leader che non deflette. Un capitano che non abbandona la nave, un leader di crisi, non di gestione, uno che galvanizza i suoi e allo stesso tempo strappa agli altri un paradossale «in un certo senso mi è piaciuto».

L’accordo di ieri è stato un momentaccio politico per i repubblicani, ma non è stata una festa per i democratici. Obama non ha certo stappato ieri sera le bottiglie migliori, anche perché l’accordicchio raggiunto a due passi dal default si limita a rimandare il problema: entro il 15 gennaio la legge di bilancio andrà rinnovata, e entro il 7 febbraio il tetto del debito andrà alzato. Significa che ci sarà un’altra battaglia, e a già allora Cruz potrà far fruttare quegli asset che oggi sembrano soltanto zavorre. Del resto, in questo pantano il senatore intransigente è stato in grado di presentare l’Obamacare come oggetto politico contendibile (una legge dello stato con il bollino dalla Corte Suprema, non un ordine esecutivo rabberciato) e ha costretto alleati moderati e avversari a ripiegare su posizioni difensive, fatte di reazioni agli stimoli altrui più che di linee politiche proprie e definite. Anche da una sconfitta tecnica può nascere un leader politico.

Twitter: @mattiaferraresi

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