Per i critici di marca ideologica, sponda destra, Bill de Blasio è una scoria del socialismo reale che la storia ha dimenticato di smaltire. Un eversore che ha ingannato tutti con i sorrisi, le battute e le interviste ammiccanti ma in realtà nel profondo del suo cuore ci sono ancora i sandinisti, Castro, la rivoluzione proletaria con barba e giacca di velluto a coste. Persino Bill Ayers, animatore di Weather Underground e conoscente di Obama prima che diventasse sconveniente dirlo in giro, ha speso parole di ammirazione per il candidato democratico. Con lui New York tornerà a essere, sostengono, la «città più a ovest dell’Unione sovietica», come si diceva un tempo.
Per quelli di marca altrettanto ideologica, sponda sinistra, de Blasio è un maestro di travestimenti che è passato senza troppi complimenti dalla corte di David Dinkins – il sindaco eletto perché era rimasto uno dei pochi democratici della città a non essere stato investito da accuse di corruzione: una volta al governo avviò il programma di sicurezza che Giuliani ha portato a maturazione – a quella della famiglia Clinton, con i suoi infiniti legami con la Wall Street da odiare e occupare.
Per i democratici sedotti e abbandonati da Obama, de Blasio è il messaggero dell’età post-qualunque cosa che il Presidente ha a lungo annunciato salvo poi trovarsi, un brutto giorno, logorato dagli affari di palazzo e incapace di convincere i lupi e gli agnelli a fare le larghe intese. De Blasio è il candidato postrazziale: sposato con un’afroamericana, Chirlane McCray, e padre di due figli, Dante e Chiara, che sono spot viventi della diversity razziale per lui la faccenda non è nella colonna dei problemi, ma vorrebbe che fosse così anche per la città di New York, dove gli stop-and-frisk della polizia colpiscono soprattutto le comunità nere.
Il candidato democratico Bill de Blasio con la moglie e i figli
De Blasio è anche il candidato postsessuale: negli anni Settanta la moglie ha scritto sulla rivista Essence un saggio autobiografico dal titolo inequivocabile: «I am a lesbian». Poi qualcosa nella sua vita è cambiato, ma continua a essere «insofferente alle etichette sessuali». Nel parco dei candidati democratici Bill Thompson era il candidato dei neri, Christine Quinn quella della comunità Lgbt: entrambi sono stati spazzati via da un personaggio che ha superato le questioni sociali nei fatti e si è scrollato di dosso ancora prima di cominciare la zavorra che sempre appesantisce i candidati “single issue”. La sua ascesa da «public advocate» della città, e prima ancora da operatore semisconosciuto di City Hall, fino alla poltrona di sindaco – si vota oggi, ma gli oltre 40 punti di vantaggio lasciano pochi dubbi sull’esito – va letta anche come conseguenza della versatilità politica.
De Blasio si trova a proprio agio ai comizi e alle serate in cravatta nera, nelle comparsate in metropolitana per stringere mani agli elettori la sua altezza inusitata fa sorridere, è praticamente invincibile quando balla con tutta la famiglia alle feste popolari di qualche comunità caraibica. L’unico elemento di continuità in questo continuo avvicendarsi di scenari, parole d’ordine e sottotesti è la titanica lotta alla diseguaglianza economica lascito di quel Michael Bloomberg da cui de Blasio è riuscito ad allontanarsi di vari anni luce, traendone il massimo profitto elettorale. La “tale of two cities” che ha scandito tutta la campagna è il refrain vincente di un sindaco che promette di alzare le tasse su chi guadagna più di 500 mila dollari l’anno e con quelle entrate vuole finanziare asili e scuole pubbliche Lo stesso che promette di alzare il salario minimo, di promuovere massicci investimenti nell’edilizia convenzionata e alzare barriere sindacali ovunque sia possibile. Nel frattempo promette anche di dare manforte allo sviluppo tecnologico della città che sotto Bloomberg è diventata una succursale della Silicon Valley, cosa che però richiede un’inclinazione mercatista in cui de Blasio non si riconosce troppo, almeno sulla carta.
Ma, del resto, nella stagione della rabbia contro i «masters of the univers» a Zuccotti Park si accampavano tanto gli hipster con il mac alimentato a pedali quanto i bonghisti stufi della vita moderna. Dall’azienda di consulenza strategica BerlinRose, che ha lavorato dietro le quinte sul messaggio più “di sinistra” di de Blasio, fino a John Del Cecato dell’azienda Akpd, quella dell’amico e stratega di Obama, David Axelrod, che ha invece curato l’apparato retorico e narrativo, sono diversi gli «unsung hero» di una sontuosa campagna che lascia il pubblico con una domanda cruciale: chi è davvero Bill de Blasio? Da questa nascono le sottodomande: in cosa crede il nuovo sindaco di New York osannato sull’onda del rigetto per Bloomberg? Crede più in Occupy Wall Street o in Wall Street? Triangolerà politicamente con fare clintoniano appena arrivato a City Hall? Nella campagna multistrato si è persa un po’ la sintesi di un personaggio che – questo è certo – non s’accontenta di essere un’eccezione ma propone un modello democratico alternativo (e replicabile) al pragmatismo di ascendenza clintoniana. L’analista Peter Beinart l’ha chiamata la «New New Left», sintesi felice di un liberalismo sbilanciato verso le questioni tradizionali della sinistra che nella New York di Wall Street e delle sacche di povertà periferiche trova il giusto combustibile. Dopo il voto di oggi de Blasio inizierà a mettere insieme gli ingredienti per il suo esperimento.