Il problema delle banche italiane è la fiducia. Quella che manca, quella che non riesce a tornare, quella che gli investitori americani ripongono negli istituti di credito di Francia e Germania, ma non in quelli dell’Italia. Il settore in questione è quello dei Money markets fund (Mmf) statunitensi. Si tratta dei fondi del mercato monetario, fondamentali per le banche per il mantenimento di un elevato livello della liquidità. Senza la loro presenza, per un sistema bancario è assai più complicato far fronte alle esigenze di funding nel breve periodo. Non è impossibile per le banche italiane, perché c’è in ogni caso è presente la Banca centrale europea (Bce). Ma è sicuramente più oneroso. Per l’Italia l’ultimo Mmf americano si è visto nel giugno 2011. A quasi due anni e mezzo di distanza, nessun ritorno.
L’ultimo report di Fitch sui Money markets fund statunitensi racchiude due notizie. La prima è positiva per l’intera eurozona. L’esposizione complessiva è in crescita, sebbene sia ancora sotto i livelli toccati nel maggio 2011, prima che il contagio della crisi dell’eurozona toccasse Italia e Spagna. Al 31 ottobre scorso, il valore complessivo delle posizioni aperte dai Mmf Usa sull’Europa è pari al 34,4% delle masse gestite dai primi dieci attori di questo mercato, circa 695 miliardi di dollari. Quest’ultima quota rappresenta il 47% del totale di tutti i Money markets fund americani, che hanno in pancia asset per 1.480 miliardi di dollari. Cifre imponenti, che servono a garantire un livello di liquidità costante per le banche di mezzo mondo. Per le banche europee si tratta di un incremento del 61% rispetto il giugno 2012, ma si tratta di ancora del 38% in meno nel confronto con il maggio 2011. Ancora più significativo è il ritorno sulle banche della zona euro, che ora rappresentano il 17,7% delle asset degli Mmf americani. L’aumento rispetto al giugno 2012 è del 145%, mentre quello rispetto al mese precedente è di sette punti percentuali. Anche in questo caso, tuttavia, si è ancora sotto la soglia del maggio 2011: meno 47% rispetto quel livello.
Le banche dell’eurozona che hanno registrato il ritorno più significativo sono quelle di Francia e Germania. Per le prime, il cui valore complessivo dell’esposizione a fine ottobre è stato del 9,4%, l’aumento nel confronto con il giugno 2012 è stato record: più 379 per cento. Certo, anche in questo il livello è inferiore del 42% rispetto al maggio 2011, ma il rapporto fra gli istituti bancari transalpini e i fondo statunitensi del mercato monetario rimane il più solido nella zona euro. Non è un caso che fra i primi quindici istituti bancari con la maggiore esposizione singola ci sia – unico soggetto dell’area euro – la francese BNP Paribas. A ruota ci sono le banche tedesche. L’esposizione dei Money markets fund su di esse è in incremento del 63% sul giugno 2012 e ora la quota è dell’8,2 per cento. Nel confronto con il maggio 2011, meno 46 punti percentuali. Il trend è però in ascesa. Come fa notare Fitch, sono sempre più gli operatori finanziari di questo segmento che hanno voglia di aprire linee con gli istituti di credito dell’eurozona. Complice il lancio dell’Asset quality review (Aqr), la verifica dei bilanci di quasi 130 banche da parte della Banca centrale europea (Bce), che sarà conclusa a novembre 2014,
L’altra notizia è invece drammatica per l’Italia. Secondo l’analisi di Fitch, nemmeno in ottobre si è avuto un ritorno dell’esposizione dei Mmf americani sulle banche italiane. Ciò significa che l’esposizione complessiva è zero. Ed è così dal luglio 2011. Nello specifico, le ultime quote sono state ritirate in giugno. Era lo 0,5% delle masse gestite. Nessun Mmf ha più deciso di riaprire posizioni. E dire che, come osservato, la fiducia degli investitori sulla zona euro è tornata. Per le banche italiane sono lontani i tempi in cui l’esposizione complessiva era del 3,2%, il massimo dal 2006. Era la seconda metà del 2009 e, nonostante la recessione globale scaturita dal collasso di Lehman Brothers, la presenza degli Mmf era significativa. Questo permetteva agli istituti di credito italiani di poter avere una fonte di finanziamento primario utile per le esigenze di erogazione dei prestiti alle piccole e medie imprese. Ora invece è l’esatto opposto.
I motivi che spingono questi fondi particolare a restare lontano dall’Italia sono diversi. «È difficile che possano rientrare fino a quando non ci saranno segnali di stabilità, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista della pulizia dei bilanci bancari», spiega a Linkiesta un trader della divisione Fixed income di Deutsche Bank. In merito a ciò, infatti, sarà cruciale l’esito dell’Aqr della Bce. Gli operatori finanziari vogliono vederci chiaro, vogliono comprendere in che stato si trovano i bilanci delle banche italiane, prima di poter tornare. Una delle sorprese negative potrebbero essere proprio le banche italiane, appesantite dai Non-performing loan (Npl, i crediti dubbi), come evidenziato da un sondaggio condotto da Goldman Sachs nelle scorse settimane. Ma poi c’è anche uno storico rapporto fra le banche francesi e quelle americane, suggellato dalle relazioni fra la Banca di Francia e la Federal Reserve di New York. Facile quindi che, una volta terminata l’emergenza nell’eurozona, il maggiore risvolto positivo sia per gli istituti transalpini.
L’assenza dei Mmf statunitensi rischia di amplificare un fenomeno che è già in atto da un paio di anni. Potrebbe esserci un ulteriore incremento della dipendenza delle banche italiane dalla liquidità della Bce, che ha sostenuto con vigore il sistema del Paese tanto nei giorni neri dello spread quanto dopo. Uno scenario che aumenta il divario fra il cuore e la periferia dell’eurozona. Una periferia di cui, specie dal punto di vista bancario, l’Italia fa parte a pieno titolo.