L’Iraq petrolifero annientato dal terrorismo

Oltre 5.000 morti da aprile

L’Iraq vorrebbe produrre 10 milioni di barili di petrolio al giorno, ma i continui attacchi terroristici mettono a rischio qualsiasi obiettivo. Gli attentati di Al Qaeda e degli estremisti sunniti hanno nuovamente preso di mira la comunità sciita. Da aprile sono state uccise quasi 5.000 persone. Le violenze, oltre al dramma umano, minano la stabilità sociale e rischiano di danneggiare la produzione di petrolio, la principale risorse economica di Baghdad e il solo canale di afflusso di valuta straniera. Il “paese dei due fiumi”, infatti, ha riserve stimate in 143 miliardi di barili (il 9 per cento delle riserve mondiali) che ne fanno il terzo produttore globale dopo Arabia Saudita e Russia. Le risorse incassate vendendo petrolio sono un’entrata fondamentale per ricostruire l’economia e le infrastrutture, ancora in grave ritardo dopo il conflitto che ha sconvolto il Paese dal 2003 fino al 2011.

Gli attacchi si sono intensificati in concomitanza con l’Ashura, la celebrazione più sacra per i musulmani sciiti. Ad essere coinvolta nella nuova ondata di violenza è stata proprio la comunità sciita che è maggioranza nel Paese e che è insediata nelle zone dove si trovano le principali riserve di petrolio.  Nel mirino sono finite anche attività e strutture legate alla produzione dell’oro nero. Il caos iracheno non è figlio solo della rivalità tra estremisti sunniti e sciiti ma anche dei nuovi equilibri tra i produttori di idrocarburi del Medioriente. Nonostante le difficoltà l’Iraq ha acquisito un crescente peso nel mercato internazionale. «Le relazioni tra l’Iraq e i Paesi produttori di petrolio del Golfo, Arabia Saudita in primis, sono state storicamente caratterizzate da conflittualità e diffidenza, in particolare in concomitanza con l’occupazione irachena del Kuwait nel 1990 e con l’invasione dell’Iraq da parte delle forze militari straniere nel 2003», spiega a Linkiesta Silvia Colombo, ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali, Visiting Researcher al Middle East Center della London School of Economics. «All’interno di questa dinamica di conflitto può essere letta l’attuale preoccupazione di Riyadh di fronte al possibile riemergere dell’Iraq quale concorrente politico ed economico sullo scacchiere regionale».

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Bassora, seconda città del Paese e snodo nevralgico del traffico della maggior parte del petrolio che ogni giorno viene esportato, la situazione è particolarmente delicata. La scorsa settimana un gruppo composto da decine di elementi tribali sciiti ha attaccato i campi petroliferi di Ramila (al confine con il Kuwait) dove sono stati devastati gli uffici dell’americana Schlumberger, la più grande compagnia per servizi petroliferi del mondo (a Bassora sono presenti British Petroleum, China National Petroleum Corporation, l’americana Exxon Mobil). Nei giorni seguenti centinaia di lavoratori e i tecnici delle compagnie petrolifere straniere hanno lasciato la zona per evitare nuove violenze e attentati. Preservare la produzione di Ramila è prioritario per l’Iraq visto che qui ci sono riserve stimate in 17 miliardi barili.

La situazione appare destabilizzata in tutto il Paese. Ormai da mesi il campo petrolifero di Kirkuk, in Kurdistan (che custodisce un terzo delle riserve irachene) è colpito da attacchi e sabotaggi. L’oleodotto che dal Kurdistan trasporta l’oro nero fino alla città turca di Ceyhan sulla costa del Mediterraneo, dove poi il greggio viene caricato sulle petroliere, è stato attaccato il 1 novembre (come era già successo a luglio). Anche il giacimento di Al Ahdeb (180 chilometri a sud di Baghdad), dove lavora la China National Petroleum è stato attaccato da uomini armati all’inizio di novembre. Ramila e Kirkuk devono necessariamente essere messi in sicurezza visto che, da soli, questi due super giacimenti forniscono i quattro quinti della produzione totale di greggio.    

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In queste condizioni l’Iraq rischia seriamente di non raggiungere gli obiettivi di produzione stimati. A metà del 2012 la produzione ha raggiunto i 3 milioni di barili al giorno, con poco meno di due milioni di barili destinati all’esportazione.

L’anno scorso, il governo ha abbassato le stime ufficiali di produzione da 12 milioni di barili al giorno nel 2017 a 10 milioni nel 2020. Stime che molti analisti considerano, comunque, irrealistiche. A marzo, l’Agenzia Internazionale dell’Energia valutava che con “le più favorevoli circostanze” e una domanda globale in crescita la produzione avrebbe potuto raggiungere i 9 milioni di barili al giorno nel 2013. Tuttavia, il raddoppio dell’attuale livello di produzione a 6,1 milioni di barili appariva già più fattibile. Nel frattempo, a giugno il governo aveva deciso di abbassare gli obiettivi di produzione a lungo termine concordati con le compagnie straniere, “a causa delle previsioni al ribasso della domanda globale”, aveva spiegato il vicepremier con delega all’Energia, Hussein al–Shahristani. Ad, esempio l’Eni ha firmato un accordo che prevede la riduzione del target di produzione da 1,2 milioni a 850 mila barili al giorno per il giacimento di Zubair (uno dei più grandi dell’Iraq), vicino Bassora. Il traguardo per il 2014 confermato dal governo iracheno dovrebbe essere, quindi, quello dei 4 milioni di barili al giorno. Non centrare questo obiettivo potrebbe metterebbe in ginocchio l’economia e la stabilità dell’Iraq. 

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