This time I’m going to take the crown without falling down
(Pretty Hurts)
Non sono mai stata una fan sfegatata di Beyoncé. Nel senso: m’è sempre piaciuta e l’ho seguita dal loggione per molti anni, ma non ne so tutte le canzoni a memoria e probabilmente non sarei in grado di tracciare e incapsulare la parabola della sua carriera come ho fatto con altre artiste finora, proprio su queste pagine. Ovviamente conosco alcune hit: le ho cantate, ballate e citate (penso soprattutto a Single Ladies); so che Beyoncé è una delle donne più ricche al mondo, che suo marito di chiama Jay Z e la sua bambina Blue Ivy. So che il suo gruppo erano le Destiny’s Child e Survivor è un signor pezzo. Ho una copia di I Am… Sasha Fierce di cui ho smarrito il secondo disco, ma ho ascoltato per lo più i singoli. Il suo quinto album omonimo, è il primo che mi metto a sentire dall’inizio alla fine con attenzione e ovviamente tutto quel che ho detto non è importante tranne che per un motivo: non credo di essere l’unica ad aver vissuto le tappe della sua vita artistica e privata in questo modo, finora. Da lontano.
Le cose, da oggi, sono cambiate. Stavolta Beyoncé è esplosa come un fuoco d’artificio: l’abbiamo vista in ogni angolo del globo e — mi sembra — siamo rimasti tutti a bocca aperta davanti allo spettacolo. Si sa com’è andata; senza nessun rumore a parte le voci di corridoio tra addetti ai lavori, l’album “visuale” è stato messo in vendita su iTunes e solo iTunes (€14.99), raggiungendo rapidamente una quota platino che ha traumatizzato le dive del momento ferme a poche centinaia di migliaia di copie. Ognuna delle quattordici canzoni è corredata da un video e, no, non è una robetta buttata lì a caso, sono diciassette (più dei brani) cortometraggi fatti e finiti ognuno con un concetto forte che riecheggia in qualche modo il testo del pezzo, ognuno uno squisito prodotto di artigianato creativo e ognuno una tessera del viaggio che fa di Beyoncé (emblematicamente titolato) un concept album e un prodotto assolutamente totale.
Totale è la parola di Beyoncé Knowles, quella che descrive al meglio il suo statuto di donna bionica: madre, moglie, gigante del business, bonazza, artista, diva, divina. Se esiste una dea nel mondo della musica post-Madonna, quella è Bey, o Queen B, o Yoncé o qualsiasi epiteto preferiate. Con Lady Gaga, o Katy Perry non c’è semplicemente gara. Eppure c’è una differenza sostanziale tra lei e l’idolo di noi ex dodicenni che ci sparavamo le pere di La Isla Bonita.
Beyoncé sa che la perfezione può trasformarsi in distacco ed è per questo che l’amore del pubblico per lei è legato a una clausola paradossale: il suo voto di generosità. Così, il disco che lancia definitivamente in un’altra lega è composto da frammenti che — presi singolarmente — hanno qualcosa di troppo umano, di quasi imbarazzante. La messa a nudo espone fette consistenti della sua vita: il lato oscuro della bellezza (Pretty Hurts), la vita matrimoniale (Drunk With Love), una sorta di compromesso con la perdita (Jealous, Mine, Heaven), la maternità (Blue Ivy), l’arroganza (Flawless, Superpower) e una sensualità priva di mezzi termini (Rocket, Haunted, Yoncé, Partition); ma più Beyoncé si spoglia e più si avvicina. Mentre l’album parte dalle casse del computer e le immagini la restituiscono sempre se stessa e sempre diversa in una specie di gioco prismatico, l’illusione è così convincente che pare stia parlando proprio a te. Solo a te.
Fatto sta — ed è questo l’aspetto più anomalo, a ben vedere — che in questo disco Beyoncé non si comporta mai da avvocato dell’eccesso. Ogni bianco o nero ha una controparte ben visibile: alla morte corrisponde, dopo una sola traccia, la nascita; ai forti connotati S&M si avvicenda quasi subito un trionfo di bellezza acqua e sapone (voglio dire, in Rocket si fa la doccia), alla visione di un amore da copertina succede un’ammissione di solitudine e gelosia, un’ode al matrimonio precede un’arringa sulla colpevole predestinazione delle donne al matrimonio, al demone si contrappone l’angelo e così via. Rispetto a tutto questo un’altra star risulterebbe probabilmente irritante: ma è — di nuovo — quella generosità a farci amare e non detestare una completezza irraggiungibile. Perché se Beyoncé avesse un simbolo, sarebbe la bilancia: è il suo equilibrio tra contraddizioni a renderla un’icona positiva. Ed è sempre questo a fare di lei la perfetta poster girl per la complessa presa di coscienza della femminilità degli anni duemila, accompagnata nel bene e nel male dall’obbligo alla versatilità. Esiste una maniera, sembra dire Beyoncé a me, a voi: si può essere tutto con brillanti risultati, e non impazzire.
Beyoncé è il suo messaggio. Uno di fierezza inequivocabile, che utilizza la fragilità come forma di potenza (I fought for you the hardest, it made me the strongest, dice in Heaven) da modulare sapientemente, senza fretta, senza passi falsi. E ci sta mostrando come si fa ad accettare la corona senza inciampare.