Quando Lady Gaga inizia la sua ascesa verso lo stardom assoluto, io sto facendo uno stage a Mtv. Le sue hit Just Dance e Poker Face, nella rotazione giornaliera, sono letteralmente tallonate da I Kissed a Girl e da Hot N Cold di una bella ragazza bruna di nome Katy Perry. Personalmente la preferisco, per le seguenti ragioni: il genere (pop contro dance), l’immagine (una morbida pettinatura anni quaranta contro una parrucca platino che ricorda lo stile di Donatella Versace) e l’immaginario conseguente dei video. In quei giorni – è l’autunno del 2008 – nascono i due massimi fenomeni del pop degli anni 10: le due stelle più paragonate, le più seguite in assoluto su Twitter, le più ossessivamente lanciate verso tutto quello che c’è di eccessivo, camp e barocco nel mondo della musica da classifica.
Eppure quelle due stelle mettono le carte sui rispettivi tavoli coperti di panno verde e a Gaga, che oltretutto gareggia con un inno al gioco d’azzardo, tocca la mano più fortunata. Ma il vero full d’assi è Paparazzi: non tanto il video, quanto il live durante gli Mtv Music Awards del 2009 in cui si fa appendere a un gancio da macellaio colando sangue sul palcoscenico. È lì che la diva di The Fame stipula il contratto con il pubblico: noi. Mentre si contorce a mezz’aria e diventa chiaro che è molto più vicina a una performer che a una cantante, si trasforma in pezzo di carne perché vuole ribadire la sua diversità e non perché il famelico mondo dello show business reclami – non ancora, almeno – qualche chilo della sua carne.
Mentre Katy Perry si tuffa in bicchieri di champagne giganti degni delle esibizioni a Sanremo di Dita Von Teese e si avvia a essere la zuccherosa principessa Disney che oggi tutti conosciamo, Gaga si affretta a manifestare compulsivamente il suo disadattamento: è l’era dei tailleur di filetto, dell’idolatria verso Alexander McQueen e le sue impossibili scarpe scultura, degli incontri con la regina d’Inghilterra in completo scarlatto. Il circo arriva in città ma ha velleità squisitamente concettuali. Con The Fame Monster, il suo primo disco e mezzo – visto che sulla carta è essenzialmente una riedizione arricchita di The Fame – Gaga fila in tessuto trasparente il suo abito di sociologa sociopatica e la sua dissertazione illustra la mostruosità della celebrità.
Il mostro è lei stessa. Il video di Bad Romance detiene per parecchio tempo il record di filmato più visualizzato su YouTube perché Gaga trasuda fascino: è una ragazza di poco più di vent’anni che si fa carico del lato oscuro dell’apparenza. Subito dopo arriva Telephone. E per consacrare una stella non c’è niente di meglio di un’altra stella: con la benedizione di Beyoncé, Gaga esplode in tutta la sua frastornante, meravigliosa potenza kitsch. Intanto infila Alejandro in un piatto già stracolmo: la canzone è bella e il video assai meno spettacolare del solito, ma l’omaggio a Madonna, finora già abbastanza palese, comincia ad avere l’aria di un attacco. Immaginate la differenza che passa tra un morsetto scherzoso e un atto di cannibalismo: ecco Born This Way.
Fase quattro: la celebrazione della mostruosità. A Lady Gaga, che ormai non è più una stella ma un’intera galassia in espansione, non basta più essere un mostro; vuol essere un uber-mostro, cioè la madre di tutti gli altri mostri. Tra The Fame Monster e Born This Way, mother monster cova nel suo nido griffato una frotta planetaria di adolescenti e ventenni. Che avevate capito? Lei intendeva mostro nel senso del “monstrum” in latino. Ed è così che con un abile colpo di mano, la poetica Gaga si trasforma definitivamente in un’ode alla diversità destinata a toccare tutte le minoranze. Questa è indubbiamente la fase più edificante, ma anche la più inquietante della sua carriera: Born This Way – una canzone senza imperfezioni palesi, costruita per servire lo scopo con precisione millimetrica – diventa la dichiarazione d’indipendenza di una generazione che non ha niente di cui vergognarsi. E funziona talmente tanto che il terzo album (2011) a cui dà il nome, vende splendidamente bene (oltre due milioni di copie, che di questi tempi è una roba allucinante). Peccato che sia meno bello dei due Fame, e peccato che chiunque si trovi al di fuori della cerchia dei mostri eletti perda progressivamente interesse nei confronti delle sue sciarade. Io so che ne ho perso, e parecchio.
Dopo due anni di Monster Ball Tour, sedie a rotelle d’oro massiccio, critiche cretine sull’aumento di peso e altre cose di cui francamente non mi sono troppo occupata (l’ho detto che, a questo punto, il mio interesse verso Gaga tocca lo zero), arriva Artpop, il terzo disco e mezzo della cantante. Ne sento parlare talmente poco che mi lascio incuriosire, perché paradossalmente questa mancanza di sensazionalismo – rispetto alla strombazzatissima uscita di Born This Way – mi fa chiedere se la galassia Gaga, dopo l’espansione, sia implosa. Ascolto Applause, che esce con il suo video-polpettone sull’arte contemporanea e lo liquido subito. Il pezzo è grazioso, niente di che. Il video è la solita roba. Di ascoltare il disco non mi frega veramente una mazza. Quindi?
Quindi un mio amico linka uno sketch di Saturday Night Live in cui Lady Gaga finge di essere anziana, ormai dimenticata (scusate, sembra che in Italia non sia più visualizzabile da nessuna parte). Chiama – con una scusa – un elettricista perché mendica un po’ di compagnia e gli chiede se ricorda almeno alcuni dei suoi pezzi più famosi, suonandoli brevemente al pianoforte. L’ultimo è Applause. Il cambio di contesto mi fa percepire il pezzo in modo nuovo e arrivo al punto di vista da cui ancora lo guardo: che sia una canzone tristissima. Riuscite a pensare a qualcosa di più patetico del basare la propria vita sull’applauso degli altri? Io no. Così metto su Artpop e lo ascolto davvero, per filo e per segno, leggendo i testi con religiosità; cerco di trovarci qualcosa, qualcosa di piccolo magari, che assomigli vagamente alla forza (posticcia, ma pur sempre forza) di Born This Way. Niente. In qualche vecchia esibizione Gaga usciva da un guscio, ma adesso è Gaga a essere quel guscio: Artpop è vuoto, edonista, disinteressato, disimpegnato. Cosa peggiore, è veramente brutto, di una bruttezza che ai tempi di The Fame Monster non ritenevo del tutto possibile. E però c’è Applause, l’unico ariete di una manciata di tracce senza godibilità né intelligenza; Applause che mi fa capire che, sotto sotto, il discorso sulla mostruosa celebrità di Gaga non si è esaurito. È come se in fondo ad Artpop ci fosse quest’unica voce flebile, soffocata da un mucchio di cazzate ignobili.
L’avete capito, a me Lady Gaga piaceva e spero che in futuro mi piaccia di nuovo. Per il momento, però, detto tutto quel che avevo da dire, ad Applause preferisco Roar.