Emozioni e sapere, l’equazione segreta della viralità

Lo studio

Se le emozioni sono una droga, internet ne è il pusher. Quando si parla di viralità del contenuto online, infatti, il sentiment è uno degli elementi in grado di fare la differenza: dall’allegria sardonica dei LOLcats alla commozione di una storia firmata Upworthy, spesso è il coinvolgimento emotivo che una fotografia, un articolo o un video causano nello spettatore-fruitore, a contribuire ad una diffusione endemica del contenuto, sfruttando anche le dinamiche interpersonali e interazionali attivate dai social network.

Il contenuto che ottiene ampia diffusione possiede sempre una buona dose di sostanza stupefacente. L’effetto che esso provoca in noi è ben descritto dall’etimologia della parola, il verbo latino stupefacio, foriero di un duplice significato: da un lato «stupire, sbalordire», dall’altro «assopire, stordire, rendere insensibile» e, in senso figurato, «soffocare il dolore». Già, perché se è innegabile che una lettura in grado di suscitare stupore – sia esso positivo o negativo, meraviglia o indignazione – catturi la nostra attenzione più di un content con lencefalogramma piatto, tuttavia bisogna operare una ulteriore distinzione: nel web, oggi, vincono ancora i messaggi positivi e di speranza. Quelli che, appunto, ci permettono, anche solo per un attimo, di «soffocare il dolore».

Qualche anno fa, due professori della University of Pennsylvania, Jonah Berger e Katherine Milkman, realizzarono uno studio empirico nel tentativo di comprendere quale fosse il fattore scatenante di ogni processo virale di successo. Analizzando oltre settemila articoli pubblicati sul New York Times tra il 30 agosto e il 30 novembre 2008, i due studiosi scoprirono che gli articoli erano più condivisi (al tempo, via e-mail) tanto più soddisfavano due requisiti: il livello di eccitazione causato nel lettore («stupire, sbalordire») e la positività del messaggio in essi contenuto («soffocare il dolore»). In generale, osservarono Berger e Milkman, gli articoli in grado di provocare emozioni ottennero risultati migliori di quelli che non ne suscitavano nessuna: ancora meglio se queste emozioni avevano una connotazione positiva.

Dopo aver analizzato un caso specifico, quello appunto del New York Times, i due studiosi effettuarono alcuni test in laboratorio, proponendo articoli diversi ad un gruppo di lettori e osservando le reazioni di questi ultimi, con particolare attenzione al modo in cui essi giudicavano ogni contenuto meritevole o meno di essere trasmesso: anche in questo caso, le storie in grado di scatenare emozioni forti furono condivise con maggiore frequenza, e quando i ricercatori manipolarono i titoli degli articoli per dare loro duplice connotazione, positiva e negativa (ad es. a “La persona è ferita” si affiancò “La persona ferita è in via di guarigione”), scoprirono che una ventata di positività era in grado di rendere un contenuto decisamente più popolare. Il titolo, specie se ottimista, era il messaggio.

Recentemente vi avevamo parlato dell’importanza che la psicologia riveste nell’efficacia di un contenuto. Le ricerche di Sonya Song parlano dell’esistenza di due Sistemi (uno lento, uno veloce) che attivano diversi livelli di attenzione e che, in questo senso, presuppongono diversi tipi di interazione e di presentazione dei contenuti web sui social network. Song aveva scoperto, ad esempio, che un articolo dotato di immagini cattura maggiormente l’attenzione, così come l’uso del maiuscolo bandito dalla netiquette, attivando il sistema “veloce”; al contrario, l’inserimento di domande al lettore, lo sviluppo di un “curiosity gap” in grado di alimentare la fantasia degli utenti e soprattutto la capacità di suscitare emozioni andavano a punzecchiare il sistema “lento”, che si attiva in presenza di un contenuto culturalmente stimolante e in grado di causare un coinvolgimento profondo.

Non di sole emozioni vive la viralità, però. Nel suo ultimo libro, “Contagious: Why Things Catch On?” Jonah Berger integra la formula magica dello sharing sopra esposta con altre caratteristiche, secondo lui necessarie affinché un contenuto ottenga una grande visibilità online. Ad esempio, uno dei concetti chiave è quello di social currency, “moneta sociale”: se un articolo o una immagine ci fanno sentire, come ha scritto in settimana Maria Konnikova sul New Yorker, «non solo intelligenti ma anche in the know, cioè “al corrente” di quanto accade intorno a noi», proviamo un senso di inclusione sociale e di elevazione, galleggiamo meglio nello stream di contenuti dei social network. È il caso, questo, dei meme, che parlano un linguaggio che non tutti possono capire.

Questi contenuti sono una moneta sociale: se io lo condivido, vuol dire che ne ho compreso il significato; se ne ho compreso il significato, vuol dire che sono ben inserito in un certo tipo di cultura. «Trasmettendo queste informazioni inviamo segnali sottili ma potenti: facciamo capire che “sappiamo”, senza però doverlo urlare a tutti. Quando tua mamma vede un LOLcats, non ha idea di che cosa sia», ha spiegato Berger. Un discorso diverso vale per le liste alla Buzzfeed, il cui successo è decretato da un duplice fattore: sono semplici da ricordare e facili da leggere, grazie al loro impianto schematico, e promettono un valore aggiunto molto pratico, dandoci la sensazione di veicolare informazione utile per noi stessi e per gli altri. 

Alla fine, osserva Berger, il contenuto vince comunque su tutto: un titolo cattura-attenzione in stile Upworthy da solo non basta, se poi dentro la scatola l’utente non trova nulla di interessante. «Le persone amano le storie», spiega lo studioso. «Più percepisci la “tua” storia come parte di un romanzo più ampio, meglio è» per la viralità del contenuto. Ci dev’essere della sostanza, dunque, affinché il pubblico sia adeguatamente stimolato. La campagna #coglioneNO, la grande “hit” virale di questo inizio di 2014 in Italia, ha tutto: veicola emozioni, ha un “titolo” catchy, attiva un meccanismo di social currency e, soprattutto, poggia su un contenuto forte e socialmente coinvolgente. Senza trascurare l’ironia: tra i linguaggi del web, forse, quello che funziona meglio. 

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